- Articoli di Psicologia clinica
- da interattivamente
- 31 Marzo 2022
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La scelta etica come fondamento dell’umano
L’esortazione tanto di moda oggi che grida: “Restiamo Umani!”, esattamente a cosa si riferisce? Di che umanità si tratta? Cosa si intende per umanità, per umano? Come si resta umani? Ma ancora meglio, come si diventa umani?
Bene, questo contributo intende proprio proporre una riflessione sul significato e sul senso che la parola umanità ha attualmente per la nostra specie. Si nasce Homo sapiens, tuttavia si diventa essere umano all’interno di una comunità umana, al di fuori della quale l’umanità non si dà, non si manifesta, non si esprime. Si apprende ad essere umani in virtù di un assetto normativo che è primariamente sociale e solo in un secondo tempo anche individuale e personale. Pertanto, per umano si intende ciò che la cultura, la società e il gruppo di riferimento sanciscono, prescrivono, definiscono per mezzo di una connotazione valoriale, cioè etica, a cui ciascuno di noi può aderire o che ciascuno di noi può rigettare.
Cosa significa essere umani?
In effetti non si riflette mai abbastanza sul fatto che i valori rappresentano una parte costitutiva di tutte le conoscenze intorno all’uomo, negarne l’evidenza significa sottoscrivere, attraverso l’ideologia fatta scienza, i valori dominanti; cosicché ogni dichiarazione di neutralità diventa un’affermazione di consenso ad una data visione del mondo, ritenuta eterna e immodificabile. Le regolarità o le irregolarità che si possono riscontrare nella condotta umana non possono essere considerate come derivate da leggi e quindi spiegate negli stessi termini di quelle che ricorrono nel mondo della natura. Tali regolarità o irregolarità sono un prodotto di mediazione di quadri di significato il cui accordo è stabilito da regole. Proprio il fatto che le persone possano modificare e produrre le regole e quindi ridefinire il contesto normativo, spiega la difficoltà nel riuscire a prevedere, definire e valutare il comportamento degli individui. Le regole del comportamento, infatti, non hanno lo status di leggi naturali, perché possono essere sfidate, ignorate o cambiate.
L’infrazione normativa, nel mondo umano, può esprimere non tanto un’anomalia comportamentale, quanto l’adesione ad un altro ordine di regole. Questo perché il mondo sociale si differenzia da quello della natura essenzialmente in virtù del suo carattere etico, cioè normativo. Affermare ciò, significa mettere in evidenza una differenziazione radicale, in quanto gli imperativi etici non rappresentano alcuna analogia con quelli della natura e sono una tipica produzione umana che regola le interazioni tra persone. Già da questa sommaria premessa, si intuisce facilmente che il rapporto tra esseri umani ed umanità è simile, detto in metafora, al rapporto che sussiste tra un liquido e il recipiente che lo contiene, cioè che esso avrà la forma stessa del suo contenitore.
Ma cos’è, dunque, l’etica?
L’etica è e resta per noi quel sapere in cui ciascuno prende a oggetto l’esperienza del proprio stesso vivere.
Noi siamo abituati oggi a considerare il vivere umano, cioè il nostro stesso vivere, a partire da un relativismo categoriale che ne occulta l’unità e, quindi, il problema di fondo. Noi abbiamo una vita fisica che può essere chiarita nei termini della medicina, una vita economica che può essere chiarita nei termini dell’economia, una vita affettiva che può essere chiarita nei termini della psicologia, una vita morale che può essere chiarita nei termini della scienza morale, una vita sociale che può essere chiarita nei termini della sociologia, ecc … In poche parole, il nostro stesso vivere è diventato l’oggetto di una pluralità, sempre in espansione, di scienze (o pseudoscienze) le più disparate. È come se noi non avessimo mai bisogno di riflettere in prima persona sul nostro stesso vivere perché, in ogni circostanza, c’è qualcuno che “ne sa più di noi” a cui possiamo rivolgerci per sapere come stanno le cose in termini supposti “scientifici”. Al limite di tutto questo, noi rischiamo di eclissarci in una sorta di fede obnubilata e obnubilante che esista un “corretto” modo di vivere, garantito da una sorta di sapere assoluto ed anonimo che si attualizzerebbe ora in questa scienza, ora in quell’altra. Ebbene, in questa sorta di limbo, tutto avviene come se fosse chiarissimo a chiunque lo scopo e il perché del vivere umano, salvo, ovviamente, il fatto che di questo nessuno ne sa assolutamente nulla. Perché, naturalmente, di fronte a ciò, finiscono le competenze del medico, dell’economista, dello psicologo, del sociologo, ecc … Una volta qui cominciavano le competenze dell’etica, ma, oggi, diventata “scienza della moralità”, può anch’essa attribuirsi, come tutte le scienze, il diritto di non saperne nulla.
L’ etica antica
Sia chiaro, non è che l’etica antica, circa il perché e lo scopo del vivere, ne sapesse qualcosa di più di quanto ne sappiamo oggi e certamente non ne sapeva di meno. Il fatto è che essa manteneva aperta ad un livello fondamentale, la possibilità di interrogarsi sul senso del vivere nei modi non occasionali che sono propri di un compito intelligente e razionale. Ovviamente, le obiezioni possono invero essere molte, si potrebbe dire: ma dove sta in piedi, da cosa trae la sua legittimità la pretesa di un simile sapere? La storia della filosofia stessa, non ne ha forse dimostrato la radicale illusorietà attraverso narrazioni fantastiche? E ancora: merita davvero il pomposo nome di “sapere” ciò che alla fine, non può che ridursi alla fede idiosincratica di ciascuno?
Onestamente, qui ci permettiamo di opporre una certa resistenza … Quand’è, infatti, che noi supponiamo di sapere qualcosa circa qualsiasi oggetto? Molto semplicemente, quando su di esso abbiamo delle certezze (e in tal senso ci auguriamo di essere ben allineati con quella modernità che si è prodotta da Cartesio in poi). Ebbene, si argomenta proprio sul fatto che sul proprio vivere non esiste alcuna “certezza” che non appartenga all’ambito circoscritto di una qualche particolare scienza. Tuttavia, questo è falso. Forse non saranno molte le certezze che l’etica frequenta, ma quelle poche possono offrire solidi fondamenti, a condizione che si sia capaci di far loro compiere un certo cammino.
Queste certezze sono, in qualche modo, note a tutti e, per trovarle formulate, non occorre che prendersi la briga di leggere i testi che ne trattano, lasciando cadere il pregiudizio che essi corrispondano ad una concezione “superata” dell’etica. D’altra parte, se così fosse, potrà ciascuno deciderselo per conto suo.
Nella nostra esperienza, nel corso del nostro vivere, possiamo solo dire che difficilmente abbiamo tratto un qualche concreto beneficio dalle sedicenti etiche moderne. Testi provenienti da secoli più lontani hanno saputo fornire, invece, assai spesso, la materia di quelle riflessioni che hanno di fatto influenzato molte cose che riguardavano il nostro vivere stesso.
L’ etica eudemonistica
Si è soliti dire che l’etica eudemonistica sia quella che ha l’ambizioso obiettivo di raggiungere la felicità. A livello personale, nutriamo qualche dubbio su dove cosa sia e dove stia la felicità e diventiamo tanto più dubbiosi e diffidenti quando qualcuno pretende di mostrarci le vie per raggiungerla. Con la parola felicità è pressoché impossibile oggi non indicare qualcosa che ha la natura di uno stato psicologico, cioè di una condizione più o meno occasionale della nostra cosiddetta “psiche”. Pertanto, non esprime una corretta traduzione del termine greco eudaimonia (in greco “eu daimon” significa infatti “buon demone”).
La ricerca dell’eudaimonia
Per i greci la ricerca dell’eudaimonia è cosa di tutt’altro registro dalla ricerca di un particolare stato psicologico. Se prendessimo alla lettera l’etimologia corrente, che proporne Platone stesso nel Cratilo, dovremmo concludere che l’etica eudemonistica è quella che muove alla ricerca di un demone, di quel buon demone capace di dare ai percorsi della vita di ciascuno le direzioni più proficue. E un demone è certamente qualcosa che si lascia pensare più nella forma di una particolare forza, di una particolare energia, di una capacità soggettiva insomma, che in quella di uno stato o di una condizione. E qui sta il punto. Non ogni forma di letizia è eudaimonia, ma solo quella che corrisponde alla messa in atto di una precisa potenzialità soggettiva, di quella disposizione umana su cui i greci non hanno cessato di interrogarsi nella forma della loro etica. Non è solo, dunque, lo stato di letizia rispetto alle cose del proprio vivere, ma anche e soprattutto la disponibilità della forza capace di generarla e mantenerla che determina la condizione dell’eudaimonia.’
2 Comments
christian
Bellissimo lo spunto sul buon demone!
Mi hai fato voglia di rileggere J.S. Mill per vedere se la sua morale utilitaristica sta in piedi anche sostituendo questo alla “felicità”. Scommetto di sì. Ciao!
interattivamente
Carissimo, questo sarà il tema che tratterò in una prossima pubblicazione che dovrebbe uscire in autunno dal titolo: Humanitas. La scelta etica come fondamento dell’umano, Marco Inghilleri e Fabrizio Luciano, passaggio al bosco edizioni, firenze.