
- Articoli Sessuologia
- da interattivamente
- 11 Novembre 2019
- 0
La sessualità nell’epoca del disincanto: quando la sessualità diventa un problema
di Marco Inghilleri
(psicologo – psicoterapeuta – sessuologo)
La sessualità ci fa ancora tanta paura, anche se, in apparenza e ingannevolmente, l’abbiamo “liberalizzata” da quasi quarant’ anni oramai. Ci fa una tale paura da costringerci a inventare dei metodi di difesa efficacissimi contro di essa: l’educazione sessuale e la sessuologia. Personalmente credo che questa paura della sessualità non sia che paura dell’amore, paura di amare e di essere amati. Se fossimo davvero capaci di amare e non soltanto di farci amare, il nostro mondo crollerebbe, dato che è costruito su tutto tranne che sull’amore.Ricevere amore e procurarsi amore sono due cose molto diverse (Bernardi, 1977). C’è un numero enorme di persone che farebbe di tutto per procurarsi un poco di amore.
Nella mia attività di psicologo e di psicoterapeuta incontro molte persone, molti pazienti, simpatici, amabili attraenti, cortesi, disponibili, servizievoli, dolci, che godono generalmente dell’ammirazione degli altri e che pur tuttavia sono infelici. Costoro si procurano l’amore. Recitano una parte, qualche volta in modo intenzionale e qualche volta no, e si adeguano a quel modello di comportamento che secondo loro è il più adatto per farsi amare. Questo in quanto i modelli simbolici attraverso i quali progettiamo le fondamenta delle nostre relazioni affettive, qualsiasi esse siano, non prevedono mai l’ammissione di un atto gratuito d’amore. Infatti, o assumono uno schema che prende ispirazione dalla metafora religiosa, dove incontriamo un Dio che non ci ama mai per ciò che semplicemente siamo, ma per ciò che dovremmo essere (fedeli, non peccatori ecc..) – basta pensare al racconto di biblico di Abramo e Isacco, o alla storia di Giobbe e alla scommessa che Dio fa con Satana – oppure trova ispirazione all’interno di una morale di scambio, economica e utilitaristica, dove vige la legge del do ut des, do per ricevere in cambio. In entrambi i casi i rapporti che regolano le relazioni tra esseri umani sono sempre caratterizzati dal vincolo, dove nel primo caso vige il dovere, il sacrificio, l’autorità, la sottomissione, l’obbedienza e l’imperfezione. Nel secondo, invece, prevale la mercificazione dei rapporti affettivi scambiati come cose tra le persone, come oggetti di consumo.
Eppure c’è una sola via per essere amati profondamente e sinceramente, ed è quella di amare: arte abbastanza rara. L’amore a pensarci bene è qualcosa di assurdo per la mentalità corrente. E’ fuori da ogni abitudine, da ogni costumanza, da ogni limite sociale, da ogni regolamento e persino da certi tipi di legame tradizionale. Se questo è vero per l’amore in generale, ritengo che sia legittimo pensarlo anche per l’amore più specificatamente colorato di erotismo e cioè per la sessualità umana. Se la sessualità è essenzialmente amore, allora, tutte le strutture normative che la imprigionano sono estranee alla sua sostanza. La norma, la restrizione, la disciplina, possono essere un problema di opportunità, di costume, di organizzazione sociale: non sono però mai un vero problema di etica sessuale. La sessualità non può essere immorale, anzi essa è fonte di coscienza morale. In altri termini, i problemi non scaturiscono dalla sessualità, cioè dall’amore, ma dalla sua negazione, cioè dall’odio. Tuttavia, la sessualità rimane, di per se stessa, uno dei problemi che agitano di più il nostro sistema sociale.
La sessualità, e più in generale l’amore, è la cosa più imbarazzante per l’uomo della modernità così come per quello della postmodernità. Tanto che ancor oggi non si fa altro che parlarne e riparlarne, e scriverne e riscriverne, in una affannata ricerca di vie di fuga da un labirinto di cui noi stessi siamo stati abili e solerti costruttori (Bernardi, 1977). Una simile contraddizione appare ancor più evidente quando la questione investe il terreno educativo: nulla è così problematico, infatti, quanto affrontare la sessualità infantile. Un bambino che presenti dei comportamenti sessuali, come ad esempio la masturbazione, ci lascia sgomenti. Il più delle volte l’idea che si tratti di manifestazioni normali che non richiedano nessun intervento e nessuna “educazione” non ci sfiora nemmeno. I più progressisti si affidano agli “esperti”, i più conservatori ricorrono senza incertezze alla repressione. Entrambi, comunque, vogliono fare dell’educazione sessuale. Questo è il minimo comune denominatore, l’esorcismo collettivo con cui ciascuno tenta di opporre una difesa contro l’ansia evocata dal “problema”, questo è lo strumento tecnico che da ogni parte si reclama per controllare l’ancora temutissima sessualità. Se un bambino, afferma Bernardi (1977), impara da solo a leggere e a scrivere tutti se ne compiacciono, ma se impara da solo che cosa è il corpo, il suo sesso, il suo piacere, e quindi anche l’amore, allora tutti ne sono spaventati. Vogliamo insegnarglielo noi, e a modo nostro. Così, abbiamo inventato l’educazione sessuale. Anzi, abbiamo inventato il problema dell’educazione sessuale.
Il sesso per la nostra cultura continua ad essere un’ingiunzione paradossale costruita da una scientia sexualis che ha reso l’uomo una “bestia da confessione”, anziché essere un’esperienza generata da un’effettiva ars erotica (Foucault, 1976). La sessualità, di per se stessa, non presenta alcun problema. Ogni problema che la riguarda deriva dalla sua elaborazione secondaria e dalle tensioni prodotte da una società che cerca costantemente autoprotezione contro la sessualità medesima. Detto in breve è un problema inventato, o meglio, costruito proprio dalle quelle pratiche discorsive sociali che l’hanno nominata e definita, e che ognuno di noi ha interiorizzato attraverso un processo di socializzazione attuato soprattutto dalle principali agenzie educative: la famiglia e la scuola.
Per educazione si intende comunemente quel complesso di operazioni dirette a fornire a una persona, di solito al bambino o all’adolescente, tutte le informazioni e le norme che lo rendano adatto a vivere secondo i suggerimenti e le esigenze del costume in cui quella persona è inserita. Scopo dell’educazione, dunque, non è quello di far evolvere un individuo verso la propria realizzazione e quindi renderlo felice, ma di far sì che l’individuo si adatti a quel tanto di infelicità che gli viene imposto da un sistema dato e considerato immutabile e indiscutibile (Spring, 1981). Ciò significa che si insegna alla gente, e specialmente ai bambini e ai ragazzi, che le regole codificate nella nostra società vanno bene così come sono e che ci si deve adeguare. Ciò significa ancora che l’eventualità di cambiamenti è tacitamente respinta in quanto pericolosa. Ciò significa che, per quello che concerne il nostro tema, l’individuo deve accettare la normativa vigente in fatto di sessualità e, ovviamente, sottostarvi. Chi si discosta da tale linea conservatrice e di immobilismo è destinato alla disapprovazione, alla censura e alla condanna. L’educazione intesa come spinta a una libera evoluzione della propria identità e a una ricerca critica di comportamenti etici è considerata sospetta, socialmente dannosa e anticulturale.Il centro intorno al quale gravita ancor oggi l’educazione sessuale continua ad essere la coppia, o meglio la coppia legittimamente unita in matrimonio ed eterosessuale. Un matrimonio regolare e ordinato “naturalmente”, in cui ciascuno dei due contraenti sia ben inserito nel ruolo che gli spetta e dal cui seno sbocci prima o poi il fiore della prole. All’interno di tale cornice è concessa qualche modesta variante, come una maggiore o minore tolleranza per i “devianti”, una più o meno benevola indulgenza per i “peccatori”, l’accettazione di qualche comportamento eterodosso, ma non è consentito uscirne e metterne in discussione il fine primario: il matrimonio come fondamento della società e come unico sbocco lecito della sessualità. Il che, ben mi si intenda, vale soprattutto per la donna. Per averne una prova evidente, si provi, per esempio, a dichiararsi pubblicamente come poligami. Quello che si incontra è uno stigma persino peggiore rispetto alla tolleranza che ora è destinata alla dichiarazione pubblica della propria omosessualità o all’affermazione di percepire un’identità di genere non conforme a quella biologica.
Il sesso non è una variabile indipendente che si imprime sull’ambiente sociale. Sono invece le situazioni sociali che vengono già predisposte, “arrangiate”, “ordinate” per valorizzare la differenza sessuale che in sé sarebbe poco incisiva. E’ l’organizzazione sociale che “inventa” i setting necessari a far emergere sia le differenze di genere come l’espressione della sessualità: la società predispone situazioni sociali, “scene”, palcoscenici adatti per l’esibizione del genere, così come della sessualità (Goffman, 1977).
L’obiettivo finale dell’educazione sessuale, dunque, è la difesa e il consolidamento dell’istituzione codificata dal costume vigente: il matrimonio. L’obiettivo immediato, che riguarda tutti coloro che non si sposeranno mai è il controllo della sessualità, desessualizzando l’individuo. Le vie comunemente scelte sono sia l’informazione biologica, sia l’elencazione di norme, precetti morali e giudizi di liceità. L’importante è fornire un’immagine della sessualità umana non solo tremendamente noiosa, ma anche perfettamente sovrapponibile a quella delle funzioni riproduttive animali e vegetali. Ma, per quanto ci si sforzi, rimane pur sempre al fondo dell’argomento l’eccitante mistero del piacere, perché ognuno di noi sa di non essere un animale o un fiore, sa che alla propria sessualità è inestricabilmente mescolato il piacere. Ed ecco che allora subentra la seconda fase educativa, che consiste nel fornire una grande quantità di consigli e di regole tendente a rinchiudere la sessualità nei confini zoologici della procreazione, oppure la si trasferisce totalmente lontanissimo dalla sfera dell’esperienza, mediante idealizzazioni rosate e sentimentali. Insomma o la sessualità la si biologizza, o si tenta la sua angelicazione. In entrambi i casi la si svuota del suo contenuto umano, che è quello dell’amore- piacere.
La desessualizazione produce un fenomeno marginale ma non irrilevante per una società conservatrice: la docilità e la malleabilità delle persone. Se si distrugge l’idea del piacere, è facile imporre l’idea del dovere. Cioè del sacrificio, dell’obbedienza, della disciplina, della rassegnazione. Fin dal momento della nascita, sostiene Laing (1968), il bambino è sottoposto a quelle costrizioni esercitate con violenza che vengono chiamate amore, così come lo erano stati sua madre e suo padre, e i loro genitori, e i genitori dei loro genitori. Queste pressioni sono intese precipuamente a distruggere la maggior parte delle sue potenzialità, impresa che, nel complesso, il più delle volte è coronata dal successo.
Il più classico e anche il più diffuso dei circoli viziosi che riescono ad imprigionarci all’interno delle nostre relazioni familiari e che ognuno di noi ha subito o ingiunto, è rappresentato dalla frase tipica : “se mi vuoi bene allora fai questo o sii questo”, che possiamo esplicitamente comunicare o implicitamente sottendere attraverso il nostro comportamento con l’altro. Bene in questo caso lasciamo al nostro familiare (che può essere un nostro genitore, nostra moglie, nostro marito o nostro figlio o nostra figlia) due alternative possibili: o disconoscere se stesso, i propri bisogni e adeguarsi alla nostra prescrizione e alle nostre aspettative, per timore di non perdere il nostro affetto, costringendolo, in pratica, a incarnare un ruolo che non gli corrisponde e che sente come estraneo pur di salvaguardare una relazione affettiva importante. In sostanza, cioè, in tal modo, lo costringiamo ad alienarsi, a rendersi estraneo a se stesso, a smarrire la propria identità pur di non perdere il nostro amore. Oppure lo mettiamo nella condizione di dover restare fedele a se stesso, alla propria identità, sentendosene però in colpa, perché disconosce le nostre aspettative. Pertanto, a seguito di ciò, lo facciamo sentire responsabile di mettere a rischio la relazione affettiva, in quanto diverso, facendogli così temere di non essere abbastanza amato, di sentirsi sbagliato o addirittura imperfetto e inadeguato, giacché non è chi volevamo egli o ella fosse.
Entrambe queste soluzioni hanno effetti negativi e terribili per le persone, perché qualsiasi scelta si debba mettere in opera, comporta comunque una perdita o della propria identità o dell’approvazione, del sostegno e dell’amore di chi si ritiene importante per la propria esistenza e per la propria vita. L’adesione a una di queste due possibilità genera una sorta di autoinganno capace di generare molti dei problemi che tento di affrontare con le persone che si rivolgono al mio studio, perpetuandosi finché resta occultato e nascosto in quelle regole normative e implicite che caratterizzano ogni gruppo umano. La prima scelta, quella del disconoscimento di se stessi, porta con se il tremendo destino di sviluppare una sorta di normopatia che ci rende succubi di ogni forma di autorità interna o esterna, configurando il disagio e la sofferenza in certe forme di dipendenza e di mancanza di autonomia. Se diamo questa soluzione al paradosso che ci imprigiona, la nostra esistenza è sempre vissuta in funzione degli altri, rendendoci nient’altro che “l’ombra di un me stesso mai esistito. La nostra identità allora diventa così qualcosa che viene definito da chi incarna il ruolo dell’autorità o dalle persone a cui conferiamo questo potere, cioè restiamo in balia di chi ha il potere della definizione o per mandato istituzionale, o per perché tale mandato siamo noi stessi a conferirlo e ad attribuirlo. Ubbidire, talvolta è un sintomo non una virtù… E’ il prezzo che paghiamo per essere amati, per essere riconosciuti come persone. Purché, comunque, si viva secondo le aspettative altrui, esageratamente supini alle violenze spesso non solo psicologiche, che chi detiene il potere dell’autorità ci rivolge, generando in noi un costante sentimento di colpa, di fronte alla quale costantemente dobbiamo giustificare la nostra esistenza con uno: “scusate se esisto”. Le condotte auto lesive o auto punitive in queste situazioni fioriscono come margherite in un prato a primavera, portandoci persino a certe modalità di auto-sabotaggio, o a stati d’ansia particolarmente profondi dovuti al fatto che di fronte alle aspettative degli altri, davanti al loro giudizio, saremo inevitabilmente sempre imperfetti, saremo sempre figli di un dio minore, saremo sempre impreparati per l’esame a cui ci sottopongono, appunto, le aspettative, mai nostre, di cui siamo investiti nostro malgrado. La responsabilità di essere come gli altri ci vogliono è un peso insostenibile, da cui si può evadere solo chiamandosi fuori, solo ammalandosi attraverso un attacco di panico per esempio. Attraverso cioè un’assenza prestata al servizio della presenza. E’ difficile in queste situazioni ribellarsi a ciò che ci permette di esistere… L’ evoluzione di questo tipo di configurazioni, infatti, esprime sempre una sofferenza che non genera allarme sociale, non genera quasi mai conflitto, è silente e non mette mai in discussione l’ordine costituito se non solo se stessi. La seconda risposta, o meglio il secondo autoinganno, invece, è esattamente il contrario: è la ribellione perenne del deviante, del diverso, di chi non si conforma alle regole stabilite, di chi non riconosce l’autorità e ad essa si oppone per esistere. L’aggressività e la rabbia che esprime la sofferenza di non sentirsi amato per la propria diversità (o meglio unicità), di non essere accettato per essa, non è in questo caso rivolta contro di sé. E’, invece, rivolta a chi ha rifiutato la differenza mostrando il limite e l’impotenza del suo amore. Il disagio allora assume la forma di un atto comunicativo che trasmette trasgressione, che afferma il proprio diritto ad esistere a prescindere da ciò che altri hanno stabilito per noi (Watzlawick, 1971). Molti dei comportamenti che generalmente consideriamo come devianti sono spesso solo un modo di affermare la legittimità della propria esistenza, della propria identità, perché nessuno può esistere senza il riconoscimento altrui. E allora, di fronte a chi ci vuole definire come non siamo, o peggio a chi ci vuole negare, ecco che reagiamo trasgredendo la norma, perché è meglio avere un’identità negativa che non averne nessuna, che essere nessuno. Meglio essere un personaggio cattivo che essere solo una comparsa nella commedia della vita. Ogni comportamento deviante è sempre un comportamento che trasgredisce un insieme di norme o di regole con le quali costruiamo la realtà e le attribuiamo senso e significato. Non è mai qualcosa che appartiene interamente al singolo come sintomo di un suo cattivo funzionamento, in quanto l’infrazione normativa, nel mondo umano, esprime non tanto un’anomalia comportamentale, quanto l’adesione ad un altro sistema di significati e di regole condivise. Questo tipo di espressione del proprio disagio, non è certamente meno scevra di conseguenze per le persone. Mentre nel primo caso abbiamo l’annullamento della propria identità, qui il pericolo che si corre è quello di venir stigmatizzati, etichettati proprio da quelle agenzie istituzionali (psicologo, psichiatra, scuola, famiglia ecc..) che dovrebbero intervenire a “correggere” quelle condotte che inevitabilmente creano allarme sociale. La persona così, entrando in un ruolo, quello del deviante, riconfigura la propria identità assumendo il personaggio rappresentato, identificandosi con esso, e si ritrova così avviato ad una vera e propria carriera deviante che cronicizzerà le sue trasgressioni (Becker 1963;Matza, 1969, 2005).
L’educazione sessuale dovrebbe a quanto si dice liberarci dall’angoscia di una sessualità frustrata e avvilita, valorizzandone i contenuti positivi, tuttavia, e ciò è paradossale, gli aspetti positivi della sessualità sono ritenuti la sua stabilizzazione istituzionale, la costituzione della famiglia, la fedeltà perpetua, la procreazione e via dicendo. Quasi nessuno ha ben chiarito che la sostanza della sessualità è il desiderio e che il resto è artificioso e sovrastrutturale. Non ci potrà mai essere, allora, liberazione dall’angoscia se non ci sarà la liberazione del desiderio. I confini del discorso sulla sessualità si sono allargati, ma soltanto in una dimensione illusoria. In una società fortemente gerarchica come la nostra, la problematicizzazione repressiva della sessualità risulta estremamente funzionale al consolidamento dell’autorità costituita. L’autorità, infatti, si consolida anche per il fatto di avere, soprattutto in forma religiosa, la possibilità di “liberare” di nuovo gli uomini da una parte del loro senso di colpa, uno sgravio d’altra parte ineluttabilmente connesso a una più forte sottomissione e devozione verso l’autorità. In altre parole, vengono provocati artificialmente negli esseri umani dei sensi di colpa legati alla sessualità e gli si libera da essi a condizione che si sottomettano all’autorità, e quindi alla repressione che l’autorità gli impone e alla propria mortificazione: la morte deve essere accettata per salvarsi. L’educazione all’accettazione della morte introduce nella vita fin dal principio un elemento di capitolazione e di sottomissione (Marcuse, 1967). Questa, implicitamente o esplicitamente, è la trama sottesa a quella morale sessuale che fornisce all’azione educativa la materia prima per la formulazione di norme e precetti. Una morale il cui fine è solo quella della conservazione, della restaurazione del matrimonio istituzionalizzato, della reciproca proprietà dei coniugi, della fedeltà coatta e dell’autoritarismo intra ed extrafamiliare. Certo è che questa morale sessuale, imbevuta di minacce e di ricatti, non convince.
Il sospetto che si tratti di una semplice operazione di potere, di una scelta programmatica volta al dominio della più potente, e pericolosa, delle energie umane, è un sospetto che non riesco a considerare privo di fondamento (Foucault, 1976). Anche lo Stato, come la Chiesa, ha bisogno di sudditi colpevoli. Se ciascuno vive la legittimità del proprio desiderio, le proprie pulsioni originarie, che sono come è noto essenzialmente di natura sessuale, così come colpevoli, chiaramente tenderà a reprimerle. Incrementando il senso di colpa dei cittadini si arriverà dunque a un’attenuazione di quella felicità sessuale che rappresenta l’ostacolo più grave allo sviluppo della società dello spettacolo. La tecnica adottata dal potere “laico” per suscitare e mantenere vivo il senso di colpa nei sudditi non è molto differente da quello del potere ecclesiastico: si crea il peccato inevitabile, che in questo caso si chiama reato. Il cittadino è pregiudizialmente un reo. Sempre. Che l’essere umano accetti una simile distorsione della mente, prodotta mediante la costruzione sociale di una realtà capace di iniettare senso di colpa, non deve sorprendere. Il tipo di educazione che viene generalmente impartito configura le identità delle vittime in modo estremamente masochista, nel senso che induce ad accogliere come cosa buona e persino piacevole la sottomissione a un potere esterno. Il masochista, si sa anche per senso comune, tende a divinizzare il passato, quale che sia, a conservarlo intatto il più a lungo possibile ed eventualmente a proiettarlo nell’eternità. Per costui nulla deve essere cambiato e per nessun motivo, specialmente se si tratta di innovazioni tali da minacciare il potere cui il masochista è passivamente devoto (Bernardi, 1977).
L’educazione, in altre parole, determina nell’individuo l’incapacità non solo alla ribellione, ma anche alla critica (Illich, 1971). Così uomini e donne continuano a portare dentro di sé il fardello dei loro sensi di colpa e con essi la devozione all’autorità che questo fardello può, a determinate condizioni, alleviare. I sensi di colpa sotto i quali si è pensato bene di seppellire la sessualità hanno generato ovviamente il rifiuto del corpo. Il corpo umano, che un tempo sembra abbia goduto di un certo rispetto, è diventato qualcosa di ben poco nobile, se non addirittura di spregevole e vergognoso. I piaceri derivanti il corpo sono scesi sempre più in basso nella scala della dignità umana. La ragione di questo strano fenomeno è presto accennata: il godimento ricavato dal corpo distoglie l’individuo dal godimento dei beni inanimati forniti dal commercio, quindi costituisce un intralcio al processo produzione-consumo-profitto, quindi è dannoso per la società dello spettacolo (Inghilleri-Fasola, 2005).
In verità, si potrebbe obiettare che forse mai come oggi si è badato tanto alla salute, all’igiene e all’estetica del corpo umano. Tuttavia, si potrebbe rispondere che ci si cura soltanto di alcune qualità del corpo e non del corpo nel suo insieme e che, guarda caso, le componenti fisiche alle quali si dà maggiore importanza sono quelle che consentono direttamente o indirettamente di realizzare dei profitti (Baudrillard, 1974). Infatti, l’industria farmaceutica e quella cosmetica fanno affari d’oro, le palestre sono entrate nella routine quotidiana di molte persone, i massaggiatori, gli estetisti e i centri di benessere praticano tariffe astronomiche non dissimili da quelle degli odontoiatri, dei dietologi e dei chirurghi estetici. In sintesi, per le società postmoderne il corpo va coltivato e protetto come uno strumento atto a conquistare prestigio, successo e denaro. Si dimentica così che il corpo è l’uomo (e la donna), o almeno è la dimensione attuale dell’uomo (e della donna), quella in cui gli esseri umani, donne e uomini, vivono. Una simile dimenticanza è stata a dir poco ben calcolata, dimenticanza a cui la religione non ha mancato di portare un solido contributo. L’insegnamento religioso ha esplicitamente dichiarato che il corpo non è nient’altro che un involucro, una zavorra, una catena che impedisce la parte vera dell’uomo (e della donna), e cioè all’anima, di elevarsi in direzione dei suoi destini celesti. Il corpo non può pertanto che essere il servo dell’anima. Il corpo va dominato, mortificato, umiliato. L’idea di ogni credente deve essere l’eliminazione del corpo, dei suoi bisogni e delle sue propensioni. Il massimo della virtù corrisponde alla negazione del corpo e perciò di se stessi. Lo spirito è il soffio di Dio, la carne è il cappio del demonio. Nel linguaggio religioso è stata usata spesso la parola “carne” per indicare la sessualità. E non a caso. Nessuno muove obiezioni contro i piedi, il fegato, le orecchie o il naso, né contro le loro funzioni. Sia il buon cittadino che il fervido credente possono tranquillamente camminare, digerire, ascoltare e fiutare un fiore. Ma, per ciò che riguarda la sessualità la faccenda è diversa: per tutto ciò che può avere qualcosa a che fare con la sessualità. Non parliamo degli organi genitali, per secoli definiti come “vergogne”, ma anche la pelle, la bocca, la lingua, i capelli, le cosce, il sedere, il seno, sono punti estremamente sospetti. Questa identificazione del corpo sessuale con il Male, ha portato ad altri due progetti educativi.
Molti… “indizi” suggeriscono l’idea che il corpo femminile sia sessualmente assai più significativo ed paradigmatico di quello maschile. Fin dalle sue prime mosse l’educazione di una persona mette ben in chiaro che la donna nuda è qualcosa di riprovevole, osceno e indecente. La maggior parte di noi mostra comunque la più indomabile disapprovazione per il corpo della donna in una prospettiva sessuale. Ne deriva la prima delle due direzioni educative cui accennavo: l’amore della donna è tanto più nobile ed encomiabile quanto più è disincarnato, spirituale, idealizzato, incorporeo e romantico (ci libereremo mai dell’angelicata creatura?). Non è mai abbastanza evidenziato come tale dequalificazione morale del corpo della donna costituisca da sempre un importante fondamento della discriminazione sessuale: essendo il corpo della donna più “impuro” di quello di un uomo, si arriva alla conclusione che la donna è geneticamente inferiore all’uomo.
Nella tradizione ecclesistica la donna, a cominciare da Eva, è la tentatrice, veicolo della perdizione, l’arma del Diavolo e in fin dei conti un essere che il maschio dovrebbe controllare, ovviamente dall’alto, e mantenere alla debita distanza. Nella tradizione borghese è abituale l’impiego della parola “puttana” per indicare qualsiasi donna che non si adegui scrupolosamente ai modelli di comportamento scelti per lei dall’uomo… E questa impostazione “educativa” mi sembra ancora ben lontana dall’essere superata.Il secondo filone parte proprio da qui: il corpo sessuale della donna può aspirare all’approvazione solo nel caso che si inserisca in un contesto produttivo, cioè procreativo. Appare significativo e opportuno ricordare che la cosiddetta esplosione demografica abbia raggiunto la sua fase più acuta proprio in corrispondenza della rivoluzione industriale. Il produttivismo soffoca la sessualità, questa viene convertita in genialità e dalla genialità fluisce la natalità.
La civiltà industriale ha fatto della sessualità uno strumento produttivo. Nulla di strano. Ma è strano che più nessuno ci badi. Evidentemente la politica educativa del Potere è più avveduta di quanto non si creda e i risultati ottenuti, in termini di rassegnazione se non addirittura di consenso e di partecipazione, lo provano.Si potrebbe controbattere a tutto ciò dicendo che non è vero, che si esagera, che si enfatizza. Si potrebbe dire che in fin dei conti oggi si può godere di una notevole “liberalizzazione del sesso”, persino eccessiva e anche che l’atteggiamento della Chiesa è mutato di molto. Vorrei che fosse così, ma temo proprio di no. Non sono le piccole concessioni formali che cambiano un costume, non è il nuovo Diritto di Famiglia che trasforma i rapporti educativi, non sono le nuove mode in materia di abbigliamento che restituiscono dignità al corpo umano, non è il divorzio che ha risolto il problema dell’istituto matrimoniale mercantilizzato e codificato, non è l’educazione sessuale che riqualificherà la sessualità (Bernardi, 1977), ne la sessuologia che la “riparerà”.
Ecco le ragioni per cui abbiamo ricominciato a parlare di sesso e della sessualità umana, attraverso la duplice prospettiva della sociologia e della psicologia. Per raccontarvi delle storie, per raccontarvi di come il discorso del Potere (Foucault, 1976), collettivo e sociale, ha pervaso le narrazioni di ciascuno di noi, costruendone le matrici generative di significato a cui attingiamo nella produzione dei nostri costrutti biografici (Inghilleri-Gasparini, 2009). Un materiale semantico che ciascuno di noi poi utilizza, per dare senso alle realtà dei propri ruoli e dei propri copioni, così come alla ribalta e al retroscena delle proprie esistenze (Goffman, 1956, 1961, 1977). La crisi dei modelli strutturalisti e neopositivisti nelle scienze umane e sociali ha fatto emergere paradigmi di ricerca di tipo ermeneutico-interpretativo che hanno portato in primo piano il problema del significato nelle scienze sociali. Porre il problema del significato come centrale per la ricerca sociologica e psicologica, così come per la ricerca storica e antropologica, significa privilegiare lo studio del linguaggio, del discorso, dell’argomentazione come fonti di sviluppo e costruzione di significati condivisi (Geertz, 1973; Rosaldo, 1974, Armezzani, 2002). Tali scambi avvengono attraverso la narrazione, cioè comunicando e condividendo con gli altri quei significati che sono filtrati dalla propria visione e interpretazione personale della realtà (Bruner, 1990).
La cultura si costruisce attraverso il raccontare e il raccontarsi. Essa, a sua volta, condiziona l’attribuzione di senso che gli individui necessariamente devono attuare per ritrovarsi e riconoscersi membri di una società, appartenenti a un dato sistema simbolico-culturale. In questo volume, pertanto, si è posto l’accento sul pensiero narrativo con il quale le persone raccontano e si scambiano fra loro storie, spiegazioni e interpretazioni della realtà che le circonda, del comportamento proprio ed altrui e degli eventi che accadono (Bruner, 1990). Attraverso i racconti delle persone rispetto al modo di vivere le loro sessualità, abbiamo cercato di dare delle testimonianze sulle forme “fluide” e “nomadi” assunte dalla sessualità nelle società postmoderne, le società del disincanto, cercando di articolare una forma di conoscenza che sappia riorganizzare il discorso sulla sessualità umana, sostituendo alle grandi narrazioni ideologiche e reificanti (Lyotard, 1979), il riconoscimento di storie locali sempre più specifiche, complesse e polifoniche (Bruner, 1987). L’affacciarsi di un paradigma divergente che possa prendere in seria considerazione l’incommensurabilità di questi mondi soggettivi, senza colonizzarli, è dunque un’esigenza fondamentale per lo studioso di scienze sociali, esposto in prima linea a scenari contemporanei pluralizzati, interconnessi, abitati da subculture e stili di vita disomogenei, nutriti da dissoluzioni dell’ordinario e dall’avanzare di nuove forme di “oscurità” (come ad esempio la sessualità virtuale, il sesso sperimentato come terreno di autoaffermazione identitaria, le riattribuzioni di significato assunte da una sessualità svincolata dalla semplice riproduzione, o ancora le nuove devianze e dipendenze sessuali, la bisessualità praticata tanto quanto l’estromissione della sessualità dalla vita di coppia, la ricerca spasmodica di rapporti sessuali con più partner, i cambiamenti generati a partire dalle minoranze sessuali della comunità GLBT).L’individuo, proprio nel momento stesso in cui racconta e narra la sua storia personale, conferisce un significato alle sue azioni e, autonarrandosi, si presenta agli altri nel modo in cui egli reputa opportuno per quella determinata situazione.
Lo stretto legame che sussiste tra narrazione e Identità ha la massima espressione proprio nel resoconto autobiografico, prodotto dal pensiero narrativo, che rappresenta uno strumento attraverso il quale attribuiamo un senso alla nostra storia e a noi stessi per presentarci e inserirci nei canoni del sistema simbolico culturale a cui apparteniamo. Abbiamo così dato spazio ad un’interiorità attiva che agisce e costruisce il proprio mondo attraverso un continuo sforzo interpretativo che permette una negoziazione intersoggettiva dei significati attribuiti a eventi e comportamenti (Blumer, 1969; Bruner, 1984). La mente narrativa, dietro alla quale si cela una determinata Identità in continua evoluzione, porta a raccontare e, in ultima analisi, a significare tutto ciò che assume caratteristiche di eccezionalità, cioè non conosciuto, non canonico, non condiviso.
Le nostre esplorazioni, le nostre indagini, non si sono rivolte dunque alla soggettività in quanto tale, ma a un’interiorità sociale, a una Identità sociale, al mondo interiore che si struttura e, al tempo stesso, dà forma al mondo esteriore creando una circolarità dinamica fra individuo e cultura. Le realtà, infatti, che le persone raccontano scambiandosi e negoziando i significati, sono delle realtà sociali e sia la mente che l’identità sono parte del mondo in cui si vive. Gli esseri umani sono quello che sono non in virtù di una eredità genetica, di una pulsionalità istintuale, o per i tratti disposizionali della loro personalità, o per fattori come stimoli, atteggiamenti, moventi consci o inconsci, vari tipi di input psicologici, percezione o cognizione e diverse rappresentazioni della condizione personale (Blumer, 1969). Piuttosto, in quanto partecipano a una cultura che li munisce di basi per il significato. In altre parole, noi sperimentiamo il mondo perché lo comprendiamo in certi modi, e non viceversa. Il significato non viene dopo il fatto, poiché l’esperienza è già un’interpretazione e noi agiamo in funzione delle nostre interpretazioni o spiegazioni. Queste non sono private, rinchiuse in una singola mente, ma vengono costruite attraverso uno scambio intersoggettivo con gli altri e con le agenzie istituzionali, a sua volta basato sulla convinzione che noi condividiamo un mondo comune. Tale processo di costruzione congiunta di significati è la base di ciò che chiamiamo cultura.La confusione tra norme prescrittive e norme costitutive ha portato indebitamente a legittimare una competenza diagnostica, di intervento e di conoscenza nel campo dei comportamenti sessuali alla psichiatria, alla medicina, all’antropologialegale (nelle loro vesti di discipline biomorali) non considerando che l’espressione della sessualità umana sia organizzata in relazione alle necessità riproduttive e alle proprietà tipiche della biologia del corpo, ma anche e soprattutto sulla base dei significati, che narrazioni storiche, culturali e sociali attribuiscono ad essa.
La sessualità e l’erotismo di donne e uomini, dunque, sono espressioni mutevoli e cangianti, “nomadi”, mai identiche a se stesse, trovando dimora solo temporanea all’interno di quelle cornici o frames che non possiedono caratteri universali, ma che sono invece socialmente generati e variabili da un sistema all’altro, o da un’epoca alla seguente. Se vogliamo occuparci dell’esperienza umana e non di dati meramente numerici, insomma, dobbiamo abbandonare i vecchi metodi di ricerca. Mentre le persone narrano, in una situazione interattiva, la storia della propria vita, negoziano significati e strutturano la propria identità. Proprio in quanto racconto di se stessi e della propria vita, l’autobiografia è strumento privilegiato per studiare il processo di costruzione della propria individualità, ma è anche un prodotto culturale e sociale, in quanto manifesta l’impronta della cultura e della società in cui la persona vive. La cultura e la società non solo influiscono sulla formazione dell’identità, ma vincolano e caratterizzano il modo in cui la persona parla di se stessa con gli altri membri dello stesso contesto culturale. Ciò sta ad indicare che il pensiero narrativo è, nel contempo, prodotto e produttore di cultura e che qualsiasi problema psicologico è sempre prigioniero del dato sociologico (Inghilleri-Gasparini, 2009).La società contemporanea, insomma, costruisce i suoi segni per poi, con paradossale maestria, provvedere a nasconderli e a presentarli come natura. La ricerca semiologico-ermeneutica è orientata a sviluppare una coscienza critica, mettendo in evidenza come la mente (in quanto prodotto culturale) vada a recuperare nella natura ciò che in essa vi ha riposto.A questo punto però sorge un dilemma. Il tema della sessualità se utilizzato come strumento per condurre una riflessione di orizzonte più ampio, sui modi in cui ognuno di noi ha interiorizzato le norme di una società autoritaria, la società postmoderna, la società dello spettacolo, mostra in maniera estremamente evidente come la società contemporanea non sia affatto la società del disincanto, dove nulla può poggiare su un senso univoco e definitivo, la società dove è venuta meno la fiducia nelle cosiddette Grandi Narrazioni della modernità (Lyotard, 1979), dove sono stati detronizzati i miti del progresso, della scienza e della storia (Vattimo, 1991). Al contrario.
La postmodernità si caratterizza come affermazione di un’unica Grande-narrazione, talmente pervasiva da aver ingoiato e cannibalizzato e sostituito ogni altra possibilità attraverso lo spettacolo, cioè un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini: il capitale ad un tale grado di accumulazione da divenire immagine (Debord, 1967). Lo spettacolo non è legato a un determinato sistema economico, ma è la traduzione della vittoria della categoria dell’economia in quanto tale all’interno della società contemporanea. La classe che ha instaurato lo spettacolo deve il suo dominio al trionfo dell’economia e delle sue leggi su tutti gli aspetti della vita. Lo spettacolo è il risultato e il progetto del modo di produzione esistente, esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione e il suo consumo conseguente. Non solo il lavoro, ma anche le altre attività umane sono organizzate in modo da giustificare e da perpetuare il modo di produzione regnante. Invece di servire i desideri umani, l’economia nel suo stadio spettacolare crea e manipola incessantemente dei bisogni: “l’economia trasforma il mondo, ma lomodifica solo inmondodell’economia” (Debord, 1967). Una simile sorte ancora oggi è rivolta alla sessualità umana, il cui controllo è necessario per garantire la giustificazione passata e presente dell’esistente. Ma in fin dei conti – ed è questa la singolare stranezza – non c’è nulla di nuovo sotto il sole se non il dimenticato, e di questo pensiero unico, omologato, di questa sola narrazione siamo, volenti o nolenti, portatori inconsapevoli e nemmeno tanto sani.