I paladini del “politicamente corretto”, da anni, ci esortano a “restare umani”. Dinanzi alle storture di un pensiero unico ipocrita e artefatto, però, è lecito chiedersi: di quale umanità stanno parlando? Come si resta e come si diventa “umani”?
Questo volume propone una libera riflessione sul senso della “umanità” e sulle sue necessarie relazioni con l’etica, laddove quest’ultima sottopone il singolo al raffronto con l’esperienza del proprio stesso vivere. È questa – senza dubbio – la parabola jüngheriana del Waldgänger: l’uomo in rivolta, che incarna il proprio codice d’onore e che non doma la propria esigenza di giustizia, rifiutando la tirannia del presente e schierandosi in direzione ostinata e contraria.
Questa soggettività etica – aliena all’individualismo liberale e all’atomizzazione marxista – è la cifra di un’identità radicata che manifesta una libertà di ordine superiore: praticare le virtù, oltre il vuoto teorico degli artifici retorici e il basso orizzonte del mercato. Perché rispetto al “mondo degli uguali”, metro e misura di una società di automi, “passare al bosco” è un dovere etico.
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Introduzione: la Struttura dell’Esperienza Etica
“L’homme n’est ni ange ni bête,
et le malheur veut que qui veut faire l’ange
fait la bête”
Blaise Pascal
“Se potessimo capovolgere la tendenza degli ultimi 150 anni,
se potessimo cioè collocare storicamente la psicoterapia
e smettere di costruire e proteggere l’interiorità personale,
potremmo forse contribuire alla creazione di una critica culturale
più completa e produttiva.
In tal modo, potremmo riuscire a colludere di meno
con il capitalismo contemporaneo
e a trovare strade realmente efficaci
per trattare le origini principali del disagio psicologico:
le strutture politiche ed economiche della nostra realtà sociale.
Alla lunga, questo, potrebbe apportare un maggior tasso di guarigioni”.
Philip Cushman
L’esortazione tanto di moda oggi che grida: “Restiamo Umani!”, esattamente a cosa si riferisce? Di che umanità si tratta? Cosa si intende per umanità, per umano? Come si resta umani? Ma ancora meglio, come si diventa umani?
Bene, questo volume intende proprio proporre una riflessione sul significato e sul senso che la parola umanità ha attualmente per la nostra specie. Si nasce Homo sapiens, tuttavia si diventa essere umano all’interno di una comunità umana, al di fuori della quale l’umanità non si dà, non si manifesta, non si esprime[1]. Si apprende ad essere umani in virtù di un assetto normativo che è primariamente sociale e solo in un secondo tempo anche individuale e personale[2]. Pertanto, per umano si intende ciò che la cultura, la società e il gruppo di riferimento sanciscono, prescrivono, definiscono per mezzo di una connotazione valoriale, cioè etica, a cui ciascuno di noi può aderire o che ciascuno di noi può rigettare.
In effetti non si riflette mai abbastanza sul fatto che i valori rappresentano una parte costitutiva di tutte le conoscenze intorno all’uomo, negarne l’evidenza significa sottoscrivere, attraverso l’ideologia fatta scienza, i valori dominanti; cosicché ogni dichiarazione di neutralità diventa un’affermazione di consenso ad una data visione del mondo, ritenuta eterna e immodificabile. Le regolarità o le irregolarità che si possono riscontrare nella condotta umana non possono essere considerate come derivate da leggi e quindi spiegate negli stessi termini di quelle che ricorrono nel mondo della natura. Tali regolarità o irregolarità sono un prodotto di mediazione di quadri di significato il cui accordo è stabilito da regole. Proprio il fatto che le persone possano modificare e produrre le regole e quindi ridefinire il contesto normativo, spiega la difficoltà nel riuscire a prevedere, definire e valutare il comportamento degli individui. Le regole del comportamento, infatti, non hanno lo status di leggi naturali, perché possono essere sfidate, ignorate o cambiate.
L’infrazione normativa, nel mondo umano, può esprimere non tanto un’anomalia comportamentale, quanto l’adesione ad un altro ordine di regole. Questo perché il mondo sociale si differenzia da quello della natura essenzialmente in virtù del suo carattere etico, cioè normativo. Affermare ciò, significa mettere in evidenza una differenziazione radicale, in quanto gli imperativi etici non rappresentano alcuna analogia con quelli della natura e sono una tipica produzione umana che regola le interazioni tra persone[3].
Già da questa sommaria premessa, si intuisce facilmente che il rapporto tra esseri umani ed umanità è simile, detto in metafora, al rapporto che sussiste tra un liquido e il recipiente che lo contiene, cioè che esso avrà la forma stessa del suo contenitore. Ma cos’è, dunque, l’etica? L’etica è e resta per noi quel sapere in cui ciascuno prende in esame l’esperienza del proprio stesso vivere.
Noi siamo abituati oggi a considerare il vivere umano, cioè il nostro stesso vivere, a partire da un relativismo categoriale che ne occulta l’unità e, quindi, il problema di fondo. Noi abbiamo una vita fisica che può essere chiarita nei termini della medicina, una vita economica che può essere chiarita nei termini dell’economia, una vita affettiva che può essere chiarita nei termini della psicologia, una vita morale che può essere chiarita nei termini della scienza morale, una vita sociale che può essere chiarita nei termini della sociologia, ecc … In poche parole, il nostro stesso vivere è diventato l’oggetto di una pluralità, sempre in espansione, di scienze (o pseudoscienze) le più disparate. È come se noi non avessimo mai bisogno di riflettere in prima persona sul nostro stesso vivere perché, in ogni circostanza, c’è qualcuno che “ne sa più di noi” a cui possiamo rivolgerci per sapere come stanno le cose in termini supposti “scientifici”. Al limite di tutto questo, noi rischiamo di eclissarci in una sorta di fede obnubilata e obnubilante che esista un “corretto” modo di vivere, garantito da una sorta di sapere assoluto ed anonimo che si attualizzerebbe ora in questa scienza, ora in quell’altra. Ebbene, in questa sorta di limbo, tutto avviene come se fosse chiarissimo a chiunque lo scopo e il perché del vivere umano, salvo, ovviamente, il fatto che di questo nessuno sa assolutamente nulla. Perché, naturalmente, di fronte a ciò, finiscono le competenze del medico, dell’economista, dello psicologo, del sociologo, ecc … Una volta qui cominciavano le competenze dell’etica, ma, oggi, diventata “scienza della moralità”, può anch’essa attribuirsi, come tutte le scienze, il diritto di non saperne nulla.
Sia chiaro, non è che l’etica antica, circa il perché e lo scopo del vivere, ne sapesse qualcosa di più di quanto ne sappiamo oggi e certamente non ne sapeva di meno. Il fatto è che essa manteneva aperta ad un livello fondamentale, la possibilità di interrogarsi sul senso del vivere nei modi non occasionali che sono propri di un compito intelligente e razionale. Ovviamente, le obiezioni possono invero essere molte, si potrebbe dire: ma dove sta in piedi, da cosa trae la sua legittimità la pretesa di un simile sapere? La storia della filosofia stessa, non ne ha forse dimostrato la radicale illusorietà attraverso narrazioni fantastiche? E ancora: merita davvero il pomposo nome di “sapere” ciò che alla fine, non può che ridursi alla fede idiosincratica di ciascuno?
Onestamente, qui ci permettiamo di opporre una certa resistenza … Quand’è, infatti, che noi supponiamo di sapere qualcosa circa qualsiasi oggetto? Molto semplicemente, quando su di esso abbiamo delle certezze (e in tal senso ci auguriamo di essere ben allineati con quella modernità che si è prodotta da Cartesio in poi). Ebbene, si argomenta proprio sul fatto che sul proprio vivere non esiste alcuna “certezza” che non appartenga all’ambito circoscritto di una qualche particolare scienza. Tuttavia, questo è falso. Forse non saranno molte le certezze che l’etica frequenta, ma quelle poche possono offrire solidi fondamenti, a condizione che si sia capaci di far loro compiere un certo cammino.
Queste certezze sono, in qualche modo, note a tutti e, per trovarle formulate, non occorre che prendersi la briga di leggere i testi che ne trattano, lasciando cadere il pregiudizio che essi corrispondano ad una concezione “superata” dell’Etica. D’altra parte, se così fosse, potrà ciascuno deciderselo per conto suo.
Nella nostra esperienza, nel corso del nostro vivere, possiamo solo dire che difficilmente abbiamo tratto un qualche concreto beneficio dalle sedicenti etiche moderne. Testi provenienti da secoli più lontani hanno saputo fornire, invece, assai spesso, la materia di quelle riflessioni che hanno di fatto influenzato molte cose che riguardavano il nostro vivere stesso.
Si è soliti dire che l’etica eudemonistica sia quella che ha l’ambizioso obiettivo di raggiungere la felicità. A livello personale, nutriamo qualche dubbio su cosa sia e dove stia la felicità e diventiamo tanto più dubbiosi e diffidenti quando qualcuno pretende di mostrarci le vie per raggiungerla. Con la parola felicità è pressoché impossibile oggi non indicare qualcosa che ha la natura di uno stato psicologico, cioè di una condizione più o meno occasionale della nostra cosiddetta “psiche”. Pertanto, non esprime una corretta traduzione del termine greco eudaimonia (in greco “eu daimon” significa infatti “buon demone”)[4]. Per i greci la ricerca dell’eudaimonia è cosa di tutt’altro registro dalla ricerca di un particolare stato psicologico. Se prendessimo alla lettera l’etimologia corrente, che propone Platone stesso nel Cratilo, dovremmo concludere che l’etica eudemonistica è quella che muove alla ricerca di un demone, di quel buon demone capace di dare ai percorsi della vita di ciascuno le direzioni più proficue. E un demone è certamente qualcosa che si lascia pensare più nella forma di una particolare forza, di una particolare energia, di una capacità soggettiva insomma, che in quella di uno stato o di una condizione. E qui sta il punto. Non ogni forma di letizia è eudaimonia, ma solo quella che corrisponde alla messa in atto di una precisa potenzialità soggettiva, di quella disposizione umana su cui i greci non hanno cessato di interrogarsi nella forma della loro etica. Non è solo, dunque, lo stato di letizia rispetto alle cose del proprio vivere, ma anche e soprattutto la disponibilità della forza capace di generarla e mantenerla che determina la condizione dell’eudaimonia[5].
La questione dei fondamenti dell’Etica
L’Etica non esiste quasi più da quando è passata nelle mani dei “professori universitari” e i suoi problemi si sono ridotti a inezie filosofiche. La fondazione dell’esperienza che dovrebbe esserle propria si cerca, oggi, di fatto nei luoghi più inverosimili, da Dio fino alle interazioni sociali, trascurando accuratamente l’unica fonte in cui di tale esperienza si possono trovare le tracce: la vita concreta e tangibile degli esseri umani. Ovvio non è sufficiente essere degli umani e dei viventi per immergersi nell’elemento dell’Etica, ma ciò è sufficiente per potersi ritrovare in tale elemento.
Il pregiudizio accademico corrente recita che l’Etica ha di fronte a sé due alternative: essere descrittiva o prescrittiva[6].Lasciamo volentieri agli accademici il compito di custodire il senso di una simile alternativa, perché, per quello che ci riguarda, preferiamo considerare l’Etica un’esperienza possibile. Non si tratta, naturalmente, di un nostro capriccio, di un nostro arbitrio: come tale l’abbiamo trovata formulata nei testi classici e i “moderni” non sono ancora riusciti a convincerci che le cose stiano diversamente. Il giorno che ci riuscissero ci libererebbero dal peso di avere delle problematiche di carattere etico, perché non vedremmo proprio più alcuna utilità nell’applicarci a cose che poi non potessero diventare una propria esperienza soggettiva (o che, diventando tali, perdessero la loro natura). Sfortunatamente per noi, i “moderni” sono molto lontani dall’averci convinti a qualcosa del genere e, anzi, restiamo persuasi che il loro modo di procedere sia un poco limitato. Un obiettivo non periferico di questo libro, è infatti, quello di esplicitare i presupposti filosofici che, da Cartesio a Kant, hanno a tutti gli effetti determinato il rovesciamento storico dell’Etica nella “scienza della morale”. Tale intento non è comunque pretestuoso o fine a se stesso, perché riteniamo che i presupposti cartesiani e kantiani non siano qualcosa che attiene specificatamente alla riflessione filosofica, ma che semplicemente diano veste filosofica ad un equivoco soggettivo[7] in cui chiunque può incappare nel proprio stesso vivere. Ed è proprio su questo equivoco che si istituisce, a nostro parere, la possibilità illusoria di una “scienza della morale”[8].
Quale sia la natura di questo equivoco è definibile come “l’equivoco di Cartesio”, che l’Etica ha la possibilità di evitare; l’Etica – in opposizione alla “scienza della morale” – ha la possibilità di costituirsi solo nell’uscita dell’essere umano dal terreno illusorio in cui può imprigionarlo l’equivoco soggettivo. Infatti, l’equivoco di Cartesio diventa molto facilmente l’equivoco di ciascuno, l’equivoco, cioè, tra ciò che si fa e ciò che si suppone di fare. Se qui parliamo di “equivoco soggettivo” è perché questa locuzione già ne indica la natura. I “moderni” sono, infatti, abituati a considerare il “soggettivo” come sinonimo di “arbitrario”, o, quanto meno, come qualcosa che ha valore puramente “relativo”. Spesso tale termine suona quasi come un rimprovero, ad esempio quando si dice a qualcuno che la sua è un’opinione “puramente soggettiva”. Tuttavia, se le parole significano ancora qualcosa, “soggettivo” indicherà ciò che trova fondamento nel fare di un soggetto, mentre “arbitrario” indicherà ciò che non trova alcun fondamento alla sua enunciazione, al di là dell’arbitrio di qualcuno. Si tratta, a conti fatti e con ogni evidenza, di due cose ben diverse. “Soggettivo” sarà sempre ciò che inerisce al fare di un “soggetto”, e non si vede proprio come qualcuno possa fare qualcosa “non soggettivamente”, oppure “oggettivamente”. E nemmeno si capisce come qualcuno possa prodursi delle certezze che non siano soggettive, perché, allora, non sarebbero le sue certezze, bensì le certezze di qualcun altro. La certezza nasce sempre da un’esperienza, da un fare, in cui si mantiene. Che possa poi trattarsi di un’esperienza comune a più soggetti (o a tutti i possibili soggetti), non ne altera certo la natura soggettiva.
Il fatto che “soggettivo” sia divenuto sinonimo di “arbitrario” indica unicamente il degrado della nozione di “soggetto”, chiamata a esprimere solo la posizione inconsistente di colui che “opina” o “ha pensieri” o “elabora congetture personali”. Il problema, però, consiste nel fatto che nessuno può credere seriamente di trovare la consistenza soggettiva – e, quindi, la certezza – del proprio vivere semplicemente in base a delle “opinioni”. Pensare il “soggetto” come costituito esclusivamente sulle modalità di coscienza rischia di celare l’ovvietà più elementare per cui un “soggetto” è, prima di tutto, ciò che fa qualcosa, ciò che può agire. Certo anche il pensare può essere una forma di azione, ma questo significa proprio che porre il “soggetto” come soggetto dell’azione non compromette minimamente, anzi esalta per certi aspetti, la posizione dell’attività di coscienza. Le toglie, forse, un po’ della sua supposta autonomia, restituendole comunque una consistenza che non potrebbe mai trovare in altro luogo. Ben difficilmente si potrà dire che ciò che è soggettivo è arbitrario, perché si cadrebbe nello stesso paradosso di chi dicesse a qualcuno: “Tu ti sei costruito una bella casa, peccato sia arbitraria!”. E nessuno potrebbe farci credere di essere ciò che non siamo, in quanto per “essere qualcosa”, bisognerebbe almeno “saperlo fare”[9].
Operari sequitur esse, ergo unde esse inde operari
Dal punto di vista dell’Etica porre il “soggetto dell’azione” significa porre la possibilità teorica della sua articolazione, che non è mai l’articolazione vuota di un cogitatum, bensì l’articolazione piena di un movimento soggettivo che trova nel cogitatum solo lo schema astratto della sua azione. Sarebbe assurdo, ad esempio, concepire ciò che i classici chiamavano προαίρεσις (prohaíresis)[10] come un puro cogitatum: certo, essa ha un suo contenuto rappresentativo, ma come tale non avrebbe alcun senso se fornisse articolazione solo al soggetto della rappresentazione e non a quello dell’azione. La proairesis è, infatti, esattamente il “darsi legge” del movimento soggettivo e la costruzione del criterio dell’azione. Ciò nonostante, il criterio dell’azione si trova solo nell’azione, col pensiero può solo essere intuito o supposto. La proairesis, dunque, è già anche un’azione e il soggetto che vi è implicato non trova certo la sua consistenza in un puro atto di coscienza.
Il fatto che l’Etica, nel suo momento teorico, si articoli sul “soggetto dell’azione”, significa allora che tutti i suoi concetti, compreso quello di “soggetto”, non possono risolversi in supposizioni di natura ontologica, ma solo in puri schemi o metafore per un movimento da compiere. Non esiste infatti alcuna “realtà” che dia misura a quei concetti, se non ciò che per un essere umano è la cosa più reale: ciò che lui sa fare, ciò che lui può fare. E se questa è la realtà che può dare certezza a qualcuno, bisognerebbe allora anche rivedere alcuni pregiudizi della Storia della Filosofia. Facendo un esempio, Montaigne non sarebbe più uno “scettico” e lo diventerebbe Cartesio, perché là dove il primo trova senza sforzo i principi che danno certezza al suo vivere, il secondo ha invece la necessità di cercare sostegno per mezzo di una “morale provvisoria”. Questo dimostra che l’Etica non è riducibile in tutto e per tutto alla filosofia, o almeno, non lo è più oggi, in quanto la filosofia è diventata l’occupazione più inutile in cui possa affaccendarsi un essere umano: una incessante produzione di parole su parole di parole.
Oggi si parla, infatti, di pensiero debole, di un pensiero, cioè capace di riconoscere ed abitare il suo limite. Saper riconoscere il proprio limite è già una buona cosa, ma non si può cancellare un limite solo riconoscendolo, specialmente quando, dopo averlo riconosciuto, lo si continua ad abitare. Il “pensare” diventa un vizio quando non è più in grado di dare alcuna consistenza all’essere umano e lo lascia come lo trova, fornendogli al massimo un lessico per la sua chiacchiera vana. Dove anche la modernità “ha pensato” sul serio non ha potuto che farlo misurandosi all’istanza di un movimento reale: movimento reale delle relazioni umane (in Marx), movimento reale nel soggetto su sé stesso (in Freud), movimento reale dell’uomo verso il suo destino (in Nietzsche). Quando il pensiero abdica ad agganciare il reale, a farsi tempo di un movimento reale e si rifugia nel gioco vuoto delle concettualizzazioni, allora ha incontrato il suo limite e vi ha preso dimora. La cultura accademica è questo vizio storicamente incarnato.
Guai se l’Etica non si sottraesse a questo vizio. Diventerebbe ancora più penosa dell’accademica scienza della morale. In effetti, l’Etica è per sua natura refrattaria al vizio, ma questo non significa che le sue parole e i suoi concetti non possano conoscere le distorsioni dovute a un vizio che di per sé le è estraneo. Per tale ragione ci premuriamo di sottolineare come nessuna delle nozioni che l’Etica mette in gioco può essere travisata in senso ontologico. Al mondo non esistono “soggetti”, “pupazzi”, “movimenti soggettivi” e tanto meno esiste l’eudaimonia, se la si intende come un luogo in cui essere felici. Queste non sono che metafore per dire qualcosa che è di per sé estraneo alla natura del dire, in quanto attiene soprattutto alla natura del fare e dell’agire. Sono metafore che traducono altre metafore, quelle dell’Etica Classica, senza cambiarvi nulla di essenziale, perché ciò che si vuole metaforizzare è sempre la stessa cosa[11].
[1] Cfr., Marco Inghilleri, L’era del Postumano. Appunti per un Manuale di Filosofia Politica, Passaggio al Bosco Edizioni, Firenze, 2022.
[2] Cfr. Alessandro Salvini, Ruoli e Identità Deviante, CLEUP, Padova, 1980.
[3] Cfr. ibid., pp. 15-38.
[4] Cfr., Amos Oz, La scatola nera, trad. it. Feltrinelli, Milano 2002, p. 89: «La felicità, è kitsch. Non ha niente in comune con l’eudaimonia dei greci. Mentre nell’ebraismo non esiste proprio il concetto di felicità e nella Bibbia non si trova nemmeno una parola corrispondente. A parte, forse, nell’appagamento che dà l’approvazione, in una reazione positiva dal cielo o dal prossimo: ‘Beati i puri di strada’, per esempio. Il giudaismo conosce solo la gioia. Come nel versetto: ‘Gioisci ragazzo nel tempo della tua gioventù’: gioia passeggera come il fuoco dell’ostico Eraclito la cui vittoria è la propria distruzione, gioia il cui opposto è implicito in essa e in fondo la rende possibile».
[5] Cfr., Lorenzo Accame, Introduzione all’Etica, Francisci Editore, Abano Terme, 1993, pp. 13-26.
[6] Cfr., Antonio Da Re, Filosofia Morale, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
[7] Riguardo alla questione posta dell’equivoco soggettivo, di cui daremo trattazione nello specifico nei capitoli a seguire, ci è sembrato opportuno anticiparlo qui con una nota, ben consapevoli che riassumerlo in poche righe non è cosa così semplice. Che l’Etica presupponga un soggetto capace di agire in proprio è un’affermazione ovvia. Se, infatti, non si supponesse un “soggetto capace di agire” non si vede proprio in quale modo si potrebbe mai porre una questione dell’Etica. Quello che è meno ovvio è in cosa consista quella “capacità di agire”, perché finora è stata solo la teoria del diritto, la giurisprudenza, a farsi carico di articolarne la nozione. È come se la filosofia desse il problema per scontato e non avvertisse la necessità di fornire un’elaborazione. Non si può dunque porre la questione del soggetto senza porre la questione dell’azione, perché, ove ciò avvenga, il soggetto stesso svanirebbe nella nebbia delle sue supposizioni. In qualche modo, questo è proprio quello che accade a Cartesio quando crede di poter progredire dalla certezza soggettiva dei suoi atti alla certezza oggettiva delle sue supposizioni. Gli capita quanto di meno oggettivo possa capitargli: di aver bisogno di Dio. E visto che l’aiuto di Dio è sempre interessato, Cartesio non può che pagare il prezzo delle sue “certezze oggettive”, cedendo in cambio le “certezze soggettive”, alla cui mancanza dovrà porre rimedio con una “morale provvisoria”. Cartesio fa così qualcosa che illustra molto bene la struttura viziosa del modo in cui, nella modernità, si è venuta ponendo la “questione del soggetto”: egli opera in maniera tale da cedere la propria realtà agibile (il suo “fare”, il cogito) ad una rappresentazione, ad una supposizione (la natura verace di Dio) che, in quanto tale, non gli è più agibile. Si tratta di qualcosa che ogni essere umano tende a fare al di fuori dei modi solenni della filosofia: cedere la certezza soggettiva del proprio vivere (la certezza cioè, costruita sul “fare” stesso del soggetto) ad una “rappresentazione del proprio vivere” sottratta come tale alla disponibilità dell’azione soggettiva. Non si tratta più, allora, di dare certezza, al proprio vivere, ma semplicemente alle proprie supposizioni.
[8] Cfr., Lorenzo Accame, La Struttura dell’Esperienza Etica, CLEUP, Padova; 1994.
[9] Cfr., ibid, pp. 5-8.
[10]Il termine prohaíresis esprime sempre l’ “interesse personale”, l’ “intenzionalità”, il “deliberato proposito”, la “premeditazione” delle azioni di un soggetto. Epitteto è chiarissimo nel suo uso del termine proairesis al quale dà piena legittimità filosofica. La proairesis nella filosofia di Epitteto è la facoltà razionale il cui possesso differenzia l’uomo da tutte le altre creature viventi. La proairesis è, dunque, la facoltà logica, razionale, propria di tutti gli esseri umani, che permette loro di dare significato e distinzione alle esperienze sensibili che di per sé sono indeterminate. Ciò che ha un senso non è infatti la percezione in sé, ma il significato che noi le diamo attraverso la ragione.
[11] Cfr., Alessandro Salvini, Ruoli e Identità Deviante, op. cit., pp. 9-14.