Dice Byung-Chul Han: “L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo” (p.6). Tutto diventa informazione, bruciando la stabilità delle cose. Siamo dediti alle informazioni e ai dati. La libido abbandona le cose e si rivolge alle non-cose (viene in mente il titolo di un libro di Valentino Zeichen Ogni cosa / a ogni cosa / ha detto addio). La conseguenza è l’“infomania”, un vero feticismo per informazioni e dati. Non solo, le cose stesse diventano infomi nel momento in cui sono presidiate dalla informatizzazione che le trasforma in “agenti che elaborano informazioni”. Così invece che manipolare le cose “comunichiamo e interagiamo con infomi che a loro volta agiscono e reagiscono”. La sintesi della nuova ontologia è lo smartphone, l’“entità fredda” che tutti ci accomuna. E la vita umana, che per Martin Heidegger (costante riferimento di Han) ha come tratto fondamentale il “superamento del cruccio”, viene sussunta in un’intelligenza artificiale che tutto omogeneizza e appiana. È così che si crea la sensazione (sensazione!) di aver risolto i problemi terreni. Come se la cosa, che per Heidegger è l’emblema dell’ordine terreno e incarna la vincolatezza, la fatticità dell’umana esistenza (p.10), nell’infosfera evaporasse in una sorta di frigidità esistenziale.
È il mondo del “phono sapiens”, più giocatore (homo ludens) che operaio (homo faber). Si capisce subito quanto tutto questo possa propiziare la solitudine sociale, la vita di ciascuno all’interno della propria bolla “ipersocial”, staccata dalla corporeità dei contatti sociali concreti con tutte le fatali ricadute psichiche. Lo smartphone “è più che altro un oggetto narcisistico e autistico grazie al quale si percepisce soprattutto sé stessi” (p.39). L’esatto contrario di ciò che per il bambino piccolo, dice l’autore richiamando Donald Winnicott, sono il suo ciuccio o la sua coperta, degli “oggetti transizionali” che gli danno un senso di sicurezza e con i quali si sente meno solo e più protetto, oggetti che in sé non sembrerebbero dare forti stimoli ma che, invece, aiutano il bambino a strutturare la sua attenzione verso la realtà.
Il punto di rottura sta nella natura puramente additiva della digitalizzazione che, al contrario di quella narrativa della memoria umana, si limita a mettere in fila i dati e a conservarli così come sono stati inseriti, senza alcuna elaborazione o trasformazione. Come nella FOTOGRAFIA di Barthes in La camera chiara a cui rinvia Han (pp.71-sgg.): la foto viva (della madre morta) che prosegue il suo lavoro sensibile nella mente di chi la vede anche dopo che l’occhio l’ha lasciata, un’immagine che non è semplice studium (percezione dei dati di realtà), ma un generatore di senso attraverso il punctum, cioè l’elemento emotivo “unico” che essa contiene e che produce un racconto, una narrazione, e da fotografia diventa FOTOGRAFIA. Ben al di là della pura sequenzialità di un selfie fatto di momenti freddi per un eterno presente.
Ma il mondo non sono i dati immagazzinati, che rimangono sempre uguali, morti, incapaci di costruire narrazioni come fa la memoria che è sempre viva e in dialettica con la realtà. D’altronde il pensiero stesso è in origine un sentire, dice Heidegger, uno stato d’animo; il pathos è l’inizio del pensiero, l’intelligenza artificiale è apatica, senza passione (pp.51-52). Le dita servono solo a contare, a digitalizzare, appunto. Il pensiero è la mano, ed è analogico, cioè collegato, analogo a.
“Ci stiamo dirigendo – dice Han – verso un’epoca trans- e post- umana in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni. […] Umano viene da humus, quindi dalla terra. La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum. Probabile che il futuro umano sia già segnato: l’essere umano si distrugge per assolutizzarsi” (p.90). E questo sta avvenendo in un contesto neoliberista in cui l’individuo stesso è il primo artefice del proprio sfruttamento economico. E allora? Allora, prosegue l’autore, bisogna riconquistare la dimensione dell’altro, bisogna tornare ad ascoltare l’altro, uscire dalla bolla egotica e aprirsi e capire che “si vede bene soltanto col cuore. L’essenziale non lo vedono, gli occhi”, come dice la volpe al Piccolo principe di Saint-Exupéry (p.93).
Dunque recuperare la naturalità del silenzio, della capacità di ascolto, della contemplazione, dell’ignoranza come spazio di crescita. Rifiutare la spazzatura informativa e comunicativa, acustica e visiva delle non-cose ed esercitare quella che Nietzsche chiamava la ‘potenza negativa’ di “non reagire subito a uno stimolo”, una forza che “rende lo spirito in grado di indugiare nel silenzio e nella contemplazione, cioè nella profonda attenzione (pp.102-103)”. Quante assonanze con il “rifiuto sul posto” di Bartleby lo scrivano che Jenny Odell mette al centro della sua riflessione in Come non fare niente (qui), libro assai consentaneo a quello di Byung-Chul Han.
La durezza della realtà odierna si sta facendo atrocemente sentire con la guerra in Ucraina. Il bagno di immagini e resoconti (personalmente mi rifiuto di entrare nella discussione “è vero, non è vero” su cui si sta frantumando irrimediabilmente il buonsenso di troppi, come se la guerra delle propagande non fosse già in sé un orrore) ci costringe rapidamente a rivedere il nostro status di mondo in (relativa) pace.
Con una pandemia ancora in corso. Scelga ognuno il termine che gli è più congeniale: shock, trauma, frattura, sisma… Forse tutto ciò effettivamente ci sta dicendo che abbiamo bisogno di riattivare la Physis, con il suo “potere autonomo” di discernere per poter riprovare con il Nomos. Il discorso, tuttavia, è lungo e complesso: che cosa è (diventata) la corporeità, la naturalità, anzi le naturalità con cui abbiamo a che fare? Pensiamo ad esempio alla profonda trasformazione della cosiddetta “funzione alfa”, cioè la capacità che la mente ha di elaborare gli elementi dell’esperienza mentale non ancora comprensibili e che diventano fonte di grande tensione. La dematerializzazione può fornirci una rimaterializzazione? Se gli “odori” sono quelli che vediamo nella gastronomia televisiva, a quale Physis dovremmo rivolgerci per rivedere il Nomos?
“Rari sono i luoghi in cui resistere”…