Di sessualità sappiamo (forse) molto ma anche molto poco.Da un lato, di sessualità si parla troppo, sovente superficialmente.Pensiamo, ad esempio, al mondo mediatico, impregnato di discorsi,consigli, divieti, allusioni, metafore, immagini d…i taglio “sessuale”.Dall’altro lato, la sessualità è una tematica ancora insufficientementeindagata a livello scientifico, ad esclusione di “problemi” e stati“patologici” ad essa culturalmente associati.Questo volume vuole contribuire alla “rottura del silenzio” in temadi espressione della sessualità, proponendo suggestive riflessioniorientate a mostrare come la sessualità umana, prima di essere unfatto meramente biologico, sia soprattutto “qualcosa per qualcuno”,un canale di comunicazione, un correlato intenzionale di una soggettivitàconoscente. E, in questa accezione, non può essere concepitase non a partire dall’esperienza vissuta, che va interpretata e valorizzata.Le nostre esplorazioni, oltre a cercare di ridare voce a chi, in primapersona, è quotidianamente coinvolto in relazioni sessuate e sessuali(al di là di quanto le narrazioni istituzionali, pubbliche, mediaticheprescrivano), hanno come fine la lettura della relazione (pienamente,parzialmente oppure non percepita) tra soggettività e identità sociale,per comprendere come il mondo interiore si strutturi nella dialetticacon il mondo esteriore, creando una circolarità dinamica fra individui,corpi, desiderio e cultura.
I confini della sessualità tra pratiche discorsive stabilizzanti ed esperienze individuali di Marco Inghilleri e Elisabetta Ruspini 1. Norme, regole, dicotomie Di sessualità sappiamo (forse) molto ma anche molto poco. Parlare di sessualità, innanzitutto, non è impresa facile. Tale concetto copre infatti un amplissimo spazio semantico. Emerge innanzitutto la crucialità della sfera sessuale nella formazione dell’identità personale; la sessualità è un elemento che influenza e definisce molti dei rapporti esistenti in una società: uomo-donna, adulto-bambino. Non a caso molti dei riti di iniziazione, che sanciscono il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, hanno a che fare con la sfera sessuale. La sessualità, poi, non è una variabile indipendente che si imprime sui corpi e sull’ambiente sociale. È l’organizzazione sociale che materializza i corpi, “inventa” i corpi “preferiti” e “stigmatizzati”, le età, i luoghi, le condizioni, i setting necessari per mettere in scena la sessualità. La società predispone modalità, situazioni sociali, palcoscenici adatti per la sua esibizione (Goffman 1977). Sessualità ed espressione del desiderio sono anche un insieme di pratiche sociali storicamente e geograficamente situate: una produzione culturale che viene incorporata (e replicata) nelle esperienze dei soggetti (Foucault 2001). La sessualità umana, in altre parole, è costruita sia dalle esperienze personali, ma soprattutto dai discorsi scientifici e dalle produzioni narrative istituzionali e di senso comune che l’hanno indagata, problematizzata, autorizzata, proibita, liberata, biologizzata. I modelli di espressione del desiderio e di relazione con il proprio e gli altri corpi sono altresì in costante mutamento. Utilizzando una metafora, si potrebbe paragonare la sessualità all’acqua, perché come essa assume la forma del recipiente che la contiene. Ciononostante, la parola sessualità è spesso ancora utilizzata come sinonimo di “rapporto sessuale” (fare “sesso”; “sesso è bello”, ecc.). Ciò non sorprende. Nell’Occidente moderno è stata operata una riduzione della sessualità alla genitalità e all’atto sessuale. Ciò ha favorito una concezione della sessualità come una dimensione autonoma dell’esistenza, come un oggetto “separato” di indagine e di fruizione e ha al contempo permesso una proliferazione dei discorsi sulla sessualità in ambiti alquanto differenziati: medico, religioso, pedagogico, psicanalitico. Alcuni (molti) di questi discorsi si sono focalizzati sugli aspetti della potenziale pericolosità dei comportamenti sessuali che si sottraevano alla regolazione familiare (Foucault 2001), un atteggiamento ampiamente influenzato dalla tradizione religiosa occidentale, legata ad un’istituzione (la Chiesa) in grado di garantire il rispetto dei buoni costumi, quali eterosessualità, fedeltà, morigeratezza, decenza e pudore nei comportamenti come nel linguaggio. La dottrina protestante è stata particolarmente inflessibile nei confronti degli atti sessuali consumati al di fuori del matrimonio o a scopo non procreativo. Anche l’intervento della Chiesa cattolica ha fortemente incentivato le attività sessuali orientate alla procreazione: l’appagamento sessuale (responsabile e autoregolato) doveva essere cercato nel matrimonio, che costituiva il punto di incontro tra ordine naturale e ordine sociale e culturale. La contraccezione veniva scoraggiata e il controllo delle dimensioni della famiglia doveva scaturire spontaneamente dalla ricerca disciplinata del piacere. La sessualità buona, “naturale”, preferita ed autorizzata possiede in effetti alcune caratteristiche: è eterosessuale, monogama, procreativa; si svolge all’interno della coppia, in privato; tra individui della stessa generazione, in alcuni punti del corso di vita; utilizza i soli corpi, è senza pornografia, si deve accompagnare ad un sentimento di amore (Rubin 1984). All’interno della coppia, inoltre, la sessualità è un obbligo: la sua assenza non è consentita tanto che un’unione ufficializzata e non “consumata” può (deve?) essere annullata2 (“un matrimonio senza ‘sesso’ non è un ‘vero’ matrimonio”). Forse a causa di tutto ciò (e di molto altro), la sessualità è una tematica insufficientemente indagata ad esclusione di “problemi” e stati “patologici” ad essa culturalmente associati (sessualità omo-bi-transessuale; promiscua; non procreativa; solitaria o di gruppo; inter-generazionale; esercitata in pubblico; pornografica; sadomasochista; virtuale; assente…, Rubin 1984). L’“impotenza” al rapporto sessuale da parte dell’uomo o della donna o il fatto che i due coniugi non abbiano avuto un rapporto sessuale completo, rende nullo il matrimonio religioso. La sentenza del Tribunale ecclesiastico viene resa esecutiva nello Stato italiano attraverso l’apposito procedimento di delibazione dinnanzi la Corte d’Appello. Il silenzio che ne deriva ha contagiato anche la ricerca sociale italiana che, alcune significative eccezioni a parte (Giddens 1995; Cipolla 1996 e 2005; Barbagli, dalla Zuanna e Garelli 2010), non ha tematizzato il contributo offerto dalle sessualità individuali al contesto culturale e, al contempo, non ha saputo monitorare e prevedere gli importanti sviluppi che hanno subito (e stanno subendo) le culture della sessualità (per una rassegna delle più significative ricerche in tema di sessualità svolte in Italia rimandiamo al primo capitolo in questo volume). All’interno del mondo accademico, la sessualità è ancora sovente considerata una tematica di ricerca “delicata”, “intima”, “imbarazzante”, anche “di nicchia”, “lontana” (o, per lo meno, non prioritaria) dai veri problemi che contrassegnano il vivere quotidiano. Dall’altro lato, nello studio della sessualità si presentano importanti problematiche di ordine metodologico connesse all’utilizzo degli strumenti di raccolta delle informazioni (primo capitolo in questo volume). È al contempo vero che di sessualità si parla molto, forse troppo, sovente superficialmente. Pensiamo, ad esempio, al mondo mediatico, impregnato di discorsi, consigli, divieti, allusioni, metafore, immagini di taglio “sessuale”. Tale affastellamento di voci (spesso in contraddizione tra loro) in associazione alle reticenze“ scientifiche” può forse essere considerato indicatore del fatto che la sessualità ci fa ancora molta paura. Questo timore ci costringe a inventare metodi di difesa contro di essa: il silenzio, la morale, il peccato, la sessuologia, anche un certo tipo di educazione sessuale. Una simile contraddizione appare evidente quando la questione investe il terreno educativo: ad esempio, nulla è così problematico quanto affrontare la sessualità infantile. Un bambino che presenti dei comportamenti sessuali, come ad esempio la masturbazione, ci lascia sgomenti (cfr. secondo capitolo in questo volume). Il più delle volte l’idea che si tratti di manifestazioni “normali” che non richiedano nessun intervento e nessuna “educazione” non ci sfiora nemmeno. I più progressisti si affidano agli “esperti”, i più conservatori ricorrono senza incertezze alla repressione. Se un bambino, afferma Bernardi (1977), impara da solo a leggere e a scrivere tutti se ne compiacciono, ma se impara da solo che cosa è il corpo, il suo sesso, il suo piacere, e quindi anche l’amore, allora tutti ne sono spaventati. Vogliamo insegnarglielo noi, e a modo nostro. Così, abbiamo inventato l’educazione sessuale. Anzi, abbiamo inventato il problema dell’educazione sessuale. Eppure, la sessualità di per sé non sembra presentare alcun problema. Ogni problema che la riguarda deriva dalla sua elaborazione secondaria e dalle tensioni prodotte da una società che cerca costantemente protezione contro la sessualità medesima. Detto in breve pare un problema “inventato”, o meglio, costruito proprio dalle quelle pratiche discorsive sociali che l’hanno nominata e definita e che ognuno di noi ha interiorizzato attraverso un processo di socializzazione attuato con il concorso delle principali agenzie educative: dalla famiglia alla scuola, dalla religione ai media. Per quello che concerne il nostro tema, l’individuo è chiamato ad accettare la normativa vigente in fatto di sessualità (preferita o stigmatizzata; buona o cattiva; normale o deviante; pulita o sporca) e, ovviamente, sottostarvi. Chi si discosta da tale linea, è destinato alla disapprovazione, alla censura e alla condanna. L’educazione intesa come spinta a una libera evoluzione della propria identità e a una sperimentazione critica è considerata sospetta e “socialmente dannosa”. Ricordiamo, ad esempio, le regole che hanno imbrigliato la libera espressione della sessualità femminile (ma, al contempo, anche maschile), sostenendo un modello di comportamento sessuale “ortodosso”, eterosessuale e monogamico: pensiamo alla divisione tra donne pure (da sposare) e donne impure (prostitute, concubine, streghe). Se, come scrive Lorber (1995, p. 102), tra il XVI e il XVII secolo le donne che manifestavano un interesse per la sessualità erano tollerate (in base alle conoscenze scientifiche dell’epoca, la donna poteva concepire, quindi garantire una discendenza, solo se raggiungeva l’orgasmo), il periodo di transizione verso la modernità è stato invece caratterizzato dal rafforzamento dell’interconnessione tra ordine familiare e ordine politico e sociale. Il disordine familiare diventava una minaccia e un elemento di crisi per la riproduzione social (Ventimiglia 1997). Le donne non venivano in alcun modo educate alla sessualità: molte si sposavano senza avere nessuna conoscenza relativa al “sesso”, tranne che esso aveva a che fare con l’insaziabilità maschile e che occorreva “sopportarlo” (per alcune struggenti testimonianze rimandiamo a Revelli 1985). Teniamo anche presente che la sessualità femminile era strettamente legata alla paura delle gravidanze indesiderate, delle malattie veneree e della morte, data anche l’elevata percentuale di donne che morivano di parto e gli alti tassi di mortalità infantile. L’espressione della sessualità femminile era altresì ritenuta sospetta e, al contempo, considerata la causa di certe malattie cui gli uomini erano immuni: nel XIX secolo fu addirittura bollata come l’origine patologica dell’isteria. Le donne che desideravano il piacere sessuale erano decisamente contro natura: l’ideale romantico di femminilità voleva che la donna fosse asessuata, oltre che docile e disponibile. Nessuna deroga a tale modello di femminilità – stabilito dagli uomini per gli uomini (alla donna è stato insegnato a desiderare ciò che gli uomini trovano desiderabile in una donna) – poteva essere accettata: una donna sessualmente attiva era considerata “deviante”, così come lo era una donna che si mostrasse socialmente intraprendente in sfere maschili. Scrive Giddens (1995, p. 199): L’ipocrisia sessuale fu particolarmente esasperata nell’epoca vittoriana. Si credeva che le donne virtuose fossero indifferenti alla sessualità e accettassero le attenzioni del marito soltanto per dovere. Ma nei centri urbani in espansione la prostituzione fioriva ed era spesso più o meno apertamente tollerata, in quanto si presumeva che le “donne di facili costumi” e quelle rispettabili appartenessero a categorie completamente diverse. Molti mariti, che in apparenza erano cittadini morigerati e fedeli alle proprie mogli, frequentavano regolarmente le prostitute o avevano delle amanti. Negli uomini questo comportamento era trattato con indulgenza, mentre le donne rispettabili che avessero un amante erano motivo di scandalo e, se scoperte, venivano emarginate dalla “buona società”. Il diverso atteggiamento nei confronti delle attività sessuali maschili e femminili ha costituito per lungo tempo una doppia morale. Verginità, castità, fedeltà erano (e spesso ancora sono) virtù inestricabilmente connesse con l’essere donna – la reputazione sociale di una ragazza poggiava sulla sua “abilità” di contenere e selezionare le avance sessuali (la scelta ponderata e morigerata dell’“uomo giusto” per permettergli di “mettere a frutto” la sua sessualità intesa anche come forza procreativa), quella di un ragazzo dal numero di conquiste effettuate – e, al contempo, vincoli legati alla necessità di costruire e far crescere una famiglia. Gli uomini sono stati socializzati e incoraggiati a vivere diversamente la propria sessualità, forti delle certezze offerte dalle culturalmente incentivate disponibilità, remissività e complicità femminili. Ancora oggi consideriamo “normale” una sessualità maschile prorompente, scarsamente contenibile, aggressiva, idraulica (Ferrero Camoletto e Bertone 2009), assumendo che gli uomini siano guidati da un potente desiderio naturale (ed eterosessuale) di soddisfazione fisica. Tale desiderio è percepito come comune a tutti gli uomini (cioè onnipresente ed universale), come necessaria prova di mascolinità (guai a non provare tale insaziabilità… ) e spesso sganciato dalla necessità di intreccio con l’emotività (in questo ha giocato un ruolo cruciale la pratica della masturbazione: secondo Fracher e Kimmel 2005 essa ha insegnato ai giovani uomini che la sessualità può essere praticata “privatamente” e senza coinvolgimento emotivo). Per questa ragione, va tenuto sotto controllo. Pensiamo, in effetti, alle molte pratiche di disciplinamento della sessualità maschile, che, secondo alcuni (Ferrero Camoletto e Bertone 2009) possono essere descritte come un’estensione dell’ascetismo protestante dall’etica del lavoro alla gestione della sessualità. Attraverso l’amministrazione della sessualità la borghesia si afferma come classe, facendo del corpo sano e vigoroso un proprio elemento di distinzione, che per l’aristocrazia era stato il sangue “blu”. In sintesi, i corsi di vita, corpi e le sessualità maschili e femminili sono stati stabilizzati dall’ideologia borghese della separazione delle sfere economica, giuridica, medica, estetica, sessuale, ma anche della differenziazione organica di funzioni e dei compiti. Mosse (1984) collega l’emergere del valore borghese della rispettabilità, intesa come l’insieme degli usi e costumi considerati decenti e corretti e la concezione del corpo e della sessualità ad essi connessa, allo sviluppo del nazionalismo a partire dal XVIII secolo. L’autocontrollo delle passioni, la moderazione e la decenza sono assunti dalle classi medie come criteri di definizione e di difesa del proprio stile di vita rispetto alla indolenza delle classi popolari e alla dissolutezza dell’aristocrazia (Corona 1997).
2. Riempire, narrando, lo spazio tra amore e sesso Come sostiene Cipolla (2005), diventa necessario arricchire le riflessioni sociologiche, ma al contempo interdisciplinari, sulla sessualità. Ciò sia per colmare un gap informativo, sia per seguire, monitorare, comprendere lo sviluppo delle culture della sessualità. Pare infatti evidente l’avanzare di “nuove” forme di espressione della sessualità: la sessualità virtuale; le riattribuzioni di significato assunte da una sessualità svincolata dalla semplice riproduzione; l’estromissione della sessualità dalla vita di coppia; la ricerca di rapporti sessuali con più partner; i cambiamenti generati a partire dalla comunità Glbt. Tale crescente diversificazione deve però fare i conti con una società ancora fortemente gerarchica, tradizionalista e resistente al mutamento quale è quella italiana (ma non solo). Alcuni esempi: le forme “non standard” di sessualità sono sovente definite “devianti”; l’obiettivo dell’educazione sessuale (in Italia, un percorso educativo silente perché non istituzionalizzato) resta la difesa e il consolidamento di istituzioni quali eterosessualità e matrimonio. Se, da un lato, si dibatte ormai da diversi decenni sull’opportunità di introdurre l’educazione sessuale nei programmi scolastici, dall’altro lato l’argomento sino ad oggi è stato trattato “indirettamente” da docenti di materie scientifiche quali la biologia, oppure dai docenti di religione cattolica. Le vie comunemente scelte sono dunque l’informazione di taglio biologico e l’elencazione di norme e precetti morali al fine di fornire un’immagine della sessualità umana rassicurante, orientata alla procreazione, che non crei imbarazzi. Ecco alcune delle ragioni per cui abbiamo ricominciato a parlare di sessualità attraverso la duplice prospettiva della sociologia e della psicologia. Il nostro progetto editoriale vuole contribuire alla “rottura del silenzio” in tema di espressione della sessualità e pratiche sessuali. Inoltre, proporre una riflessione inedita in grado di mostrare come la sessualità umana, prima di essere un fatto meramente biologico, sia soprattutto “qualcosa per qualcuno”, un canale di comunicazione, un correlato intenzionale di una soggettività conoscente. E, in questa accezione, non può essere concepita se non a partire dall’esperienza vissuta; al contempo, tale esperienza non va nascosta, occultata ma interpretata e valorizzata. La cultura si costruisce attraverso il raccontare e il raccontarsi. Essa, a sua volta, condiziona l’attribuzione di senso che gli individui necessariamente devono attuare per ritrovarsi e riconoscersi membri di una società, appartenenti a un dato sistema simbolico-culturale. Mentre le persone narrano, in una situazione interattiva, la storia della propria vita, negoziano significati e strutturano la propria identità. Proprio in quanto racconto di se stessi e della propria vita, l’autobiografia è strumento privilegiato per studiare il processo di costruzione dell’individualità, ma è anche un prodotto culturale e sociale, in quanto manifesta l’impronta della cultura e della società in cui la persona vive. La cultura e la società non solo influiscono sulla formazione dell’identità, ma vincolano e caratterizzano il modo in cui la persona parla di se stessa con gli altri membri dello stesso contesto culturale. Ciò sta ad indicare che il pensiero narrativo è, nel contempo, prodotto e produttore di cultura e che qualsiasi problema psicologico è sempre prigioniero del dato sociologico (Inghilleri e Gasparini 2009). In questo volume − introdotto e arricchito dalla prefazione di Costantino Cipolla − si è posto l’accento sul pensiero narrativo con il quale le persone raccontano e si scambiano fra loro storie, spiegazioni e interpretazioni della realtà che le circonda, del comportamento proprio ed altrui e degli eventi che accadono (Bruner 1990). Al contempo, danno senso ai propri ruoli e ai propri copioni, così come alla ribalta e al retroscena della propria esistenza (Goffman 1959, 1977). Le nostre esplorazioni, dunque, oltre a cercare di ridare voce a chi, in prima persona, è quotidianamente coinvolto in relazioni sessuate e sessuali (al di là di quanto le narrazioni istituzionali, pubbliche, mediatiche prescrivano), hanno come fine la lettura della relazione (pienamente, parzialmente oppure non percepita) tra soggettività e identità sociale, per comprendere come il mondo interiore si strutturi nella dialettica con il mondo esteriore, creando una circolarità dinamica (neutra, positiva, negativa?) fra individuo e cultura. Attraverso i racconti, abbiamo altresì cercato di offrire una testimonianza su percezioni e forme assunte dalla sessualità nelle società della tarda modernità, le società del disincanto. Ciò anche al fine di comprendere come le percezioni individuali possano differire dalle aspettative sociali e gettare luce sul processo di individuazione e decostruzione di stereotipi in tema di sessualità; di sostituire al paradigma definitorio un paradigma orientativo (Blumer 1954); di contribuire ad una forma di conoscenza rispettosa della diversità orientata verso un processo di riorganizzare dei discorsi sulla sessualità umana, che sappia sostituire alle grandi narrazioni standardizzate ed ideologiche (Lyotard 1979) il riconoscimento di storie locali sempre più specifiche, complesse e polifoniche (Bruner 1987). Il volume si divide in due parti. Nella prima parte offriamo un excursus su alcune “grandi narrazioni” in tema di sessualità. I primi capitoli ripercorrono da un lato la storia del (non)rapporto tra sessualità e ricerca sociale (capitolo 2 di Stefania Operto); riflettono poi sulle narrazioni mediatiche in tema di sessualità (capitolo 3 di Manuela Rossi e Elisabetta Ruspini); si concentrano infine sulla costruzione sociale di un concetto chiave per la comprensione delle culture della sessualità: l’eterosessualità (capitolo 4 di Marco Alberio e Sveva Magaraggia). Il capitolo 4 ci conduce alla seconda parte del volume, dove diamo voce alle esperienze e percezioni individuali. Le testimonianze raccolte da autori ed autrici toccano vari ambiti: dalle sessualità disabili (capitolo 5 di Elisa A:G. Arfini) alle sessualità considerate “devianti” (capitolo 6 di Marco Inghilleri) a quelle omosessuali (capitolo 7 di Luca Trappolin) e transessuali (capitolo 8 di Elisabetta Ruspini e Carla Turolla). Si tratta, in sintesi, di un percorso di lettura pensato per offrire a lettori e lettrici la possibilità di mettere a confronto stereotipi e pregiudizi (sostenuti e rinforzati dal consenso sociale) con la ricchezza dei mondi e delle percezioni soggettive; un’esigenzafondamentale anche per lo studioso di scienze sociali, esposto in prima linea a scenari contemporanei pluralizzati, interconnessi, abitati da subculture e stili di vita disomogenei e nutriti da dissoluzioni dell’ordinario.
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