Postfazione
di Marco Inghilleri
Introduzione
Ho trovato di particolare interesse il tema sviluppato dalle Autrici e dagli Autori di questo volume, soprattutto in quanto ritengo abbiano contribuito a mappare uno dei tanti territori in via di ridefinizione che appartengono a una società in rapido cambiamento, i cui modelli di riferimento culturale si sono resi talmente “liquidi” (Bauman 2001, 2005) da essere evaporati, da essere divenuti talmente eterei da aver fatto assumere a tutto il mondo occidentale una fisionomia assimilabile alla rappresentazione che Giordano Bruno (Mancini 2000), con la scoperta dello spazio infinito, diede dell’Universo: uno spazio privo di qualsiasi punto di riferimento centrale perché ogni punto può esserne il centro o la periferia.
Ecco, quindi, la società contemporanea, i cui Metaracconti o Metanarrazioni (Lyotard 1979) sono inesorabilmente tramontati, lasciando allo Spettacolo (Guy Debord 1967 ) l’infausto compito di organizzare l’anomia di un immaginario simbolico degradato a mero contenitore di simulacri (Baudrillard 1970, 1978). Ecco, più o meno, il contesto di significazione entro cui la vita di ciascuno di noi cerca di costruire attivamente il senso delle proprie esperienze e della propria identità.
Che sia un’epoca di trasformazioni culturali appare evidente, così come appare evidente la nostra incapacità di saper comporre una dialettica tra categorie della “modernità” ed eventi della “postmodernità”. Saper far questo, ci consentirebbe un atto creativo, un’invenzione capace di generare una nuova possibilità rispetto al divenire storico, congedandoci in tal modo da un passato ancora troppo presente, che ci richiama come il canto delle sirene, essendo ciò che è noto più rassicurante dell’ignoto, cioè di ciò che ancora non è stato sperimentato.
Le questioni legate al genere, a mio avviso, sono fondamentali appunto per l’individuazione di quelle polarità semantiche (Ugazio 1998), cioè di quei costrutti, a partire dalle quali si originano a livello sociale, familiare e individuale l’interiorizzazione dei copioni e delle pratiche discorsive che permettono la costruzione di una realtà sociale che ci imprigiona nell’intersoggettività dei suoi stessi pregiudizi, assimilati proprio attraverso i processi di socializzazione e inculturazione. Ogni condizionamento sessuale vive a patto che nell’altro sesso ne venga provocato uno opposto. La superiorità e la forza di un sesso si reggono esclusivamente sulla inferiorità e debolezza dell’altro (Ugazio 1998). Se il maschio si sentirà tale solo se può dominare, inevitabilmente bisognerà pur produrre qualcuno che accetti di essere dominato. Ma se si smette di insegnare al maschio a dominare e alla femmina di accettare e amare di essere dominata, possono fiorire inaspettate e insospettate espressioni individuali molto più ricche, articolate, immaginose dei ristretti e mortificanti stereotipi (Gianini Belotti 1973).
I pregiudizi sono profondamente radicati nel costume: sfidano il tempo, le rettifiche, le smentite perché presentano un’utilità sociale. L’insicurezza umana ha bisogno di certezze, ed essi ne forniscono. La loro stupefacente forza risiede proprio nel fatto che non vengono ammanniti a persone adulte che, per quanto condizionate e impoverite di senso critico, potrebbero averne conservato abbastanza per analizzarli e rifiutarli, ma vengono trasmessi come verità indiscutibili fin dall’infanzia e non vengono mai rinnegati successivamente. L’individuo li interiorizza suo malgrado, e ne è vittima sia colui che li formula e li mantiene in vita contro l’altro, sia colui che ne viene colpito e bollato.
Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della bambina persuasa della sua inferiorità per il fatto stesso di appartenere al suo sesso. Il suo sviluppo come individuo ne viene deformato e la sua personalità impoverita, a scapito della loro vita in comune (Gianini Belotti 1973 ).
Come sosteneva Durkheim (Crespi 1996, pp. 42-45; De Biasi 2002, p. 26) «La vita collettiva non è nata dalla vita individuale; al contrario, la seconda è nata dalla prima, pertanto è impossibile sbarazzarsi di un mondo senza sbarazzarsi del linguaggio che lo nasconde e lo protegge. Le istituzioni sociali sono il frutto dell’oggettivazione di ciò che l’uomo fa, ma non perciò acquistano uno stato ontologico indipendente dall’attività umana che l’ha prodotta (Berger e Luckmann, 1966).
L’opposizione tra maschile e femminile diviene necessità oggettiva e soggettiva nel momento in cui si va ad inserire in un sistema di opposizioni omologhe (alto/basso, sopra/sotto, ecc.), nelle quali si immergono i corpi (Héritier 1996). Questi schemi di pensiero registrano come differenze di natura scarti e tratti distintivi che essi stessi contribuiscono a far esistere, “naturalizzandoli” attraverso la loro inscrizione in un sistema di differenze che appaiono naturali. In questo senso, l’ordine sociale assume le sembianze di una macchina simbolica che serve a ratificare il dominio maschile sul quale si fonda. Infatti, esso produce simboli che riproducono e confermano, con atti di legittimazione, il suo principio fondatore: il dominio maschile. Si può tranquillamente parlare di un “programma sociale di percezione incorporato” che si applica a tutto ciò che ci sta intorno e quindi anche al corpo biologico. Proprio tramite questa “strategia” (perpetuata e naturalizzata anch’essa) si può fare della differenza biologica e anatomica tra gli organi sessuali, la giustificazione naturale di una differenza socialmente costruita tra i generi. Si nota in maniera inequivocabile che i dominati, in questo caso le donne, applicano a ciò che li domina schemi prodotti dal dominio, quindi questi atti di conoscenza sono in realtà atti di “riconoscenza”. Il dominio maschile viene incorporato sia dai dominanti (uomini) che dai dominati (donne) (Bordieu 1998), di conseguenza cambiare il rapporto tra maschile e femminile implica necessariamente stravolgere le nostre consuetudini intellettuali più profonde e radicate (Héritier 1996).
2. La costruzione sociale della mascolinità contemporanea: sociogenesi di un disagio
La dimensione storica e culturale che sovrasta e costruisce l’identità maschile, le sue rappresentazioni, i ruoli ed i correlati psicologici, è soggetta a mutamenti molto più lenti di quelli sociali, che invece obbediscono alle accelerazioni ed ai più rapidi cambiamenti politico-economici, tecnico-scientifici e di costume. Questa diversa velocità di cambiamento mette a disposizione degli uomini un materiale semantico spesso incoerente e contraddittorio a cui attingere nella produzione dei propri costrutti biografici, dando così luogo a processi di costruzione identitaria conflittuali e fragili.
Se per le donne favorire e promuovere la spinta emancipativa e sociale, riconfigurando i significati attribuiti alla femminilità, ha implicato un percorso di liberazione e di riscoperta dei valori antiautoritari (Bookchin 1982), al contrario per gli uomini questo ha comportato una perdita della visione patricentrica, autoritaria, e dei suoi modelli. La storia del maschile e dei suoi significati è infatti legata a quella del dominio e della gerarchia, tanto da coagularsi in una simbologia dove costrutti relativi al potere e mascolinità spesso si confondono. Gli uomini diventano i guardiani della comunità non in base ad un’usurpazione, ma perché meglio forniti di quella forza fisica e muscolare idonea a difenderla da pericoli naturali, così come da predoni ostili (Bookchin 1982; Harris 1987, Héritier 1996, 2010). Infatti, non solo la caccia, ma anche la difesa e più tardi la guerra entrano a far parte delle attribuzioni maschili nella divisione sessuale del lavoro. Il maschio, nelle comunità dedite alla caccia, è uno specialista della violenza rispetto alla donna. Fin dai primissimi giorni dell’infanzia, egli si identifica con aree di significato attribuite al maschile, quali il coraggio, la forza, l’autoaffermazione, la decisione e l’atletismo; tutti costrutti sovraordinati e necessari al benessere della collettività. La comunità, a sua volta premierà il maschio per questi atteggiamenti, concorrendo così a promuoverli e a validarli. Similmente, la femmina è una specialista nell’allevare i bambini e nel raccogliere il cibo. Le sue responsabilità si focalizzano sull’educazione e sul sostentamento. Sin dall’infanzia apprenderà ad identificarsi in aree di significato attribuite al femminile, come il prendersi cura degli altri, la tenerezza e le verranno insegnate occupazioni relativamente sedentarie.
La riflessione degli esseri umani non ha che potuto dirigersi su quanto era loro dato di osservare più da vicino, cioè il corpo e l’ambiente in cui il corpo è immerso. Il corpo umano, luogo di osservazioni costanti, presenta un tratto notevole: la differenza sessuale e il differente ruolo dei sessi nella riproduzione. Su questo aspetto si fonda un’opposizione concettuale essenziale: quella che oppone l’identico al differente, uno di quei themata arcaici che si ritrovano in tutto il pensiero scientifico, antico e moderno, e in tutti i sistemi di rappresentazione. Le categorie di genere, le rappresentazioni della persona sessuata, la ripartizione dei compiti che conosciamo nelle società occidentali, non sono fenomeni a valore universale generati da una natura biologica comune, bensì costruzioni culturali. Infatti, con uno stesso alfabeto simbolico, ancorato a questa natura biologica comune, ogni società elabora frasi culturali particolari e che le sono proprie (Héritier 1996).
Non vi è una ragione intrinseca per cui una comunità patricentrica, solo perché ha un orientamento maschile, debba essere gerarchica, o debba ridurre le donne in posizione sottomessa. I ruoli economici dei due generi sono totalmente complementari; senza il sostegno che un genere dà all’altro, la comunità si disintegrerebbe. Nel trasferire i nostri atteggiamenti e significati sulle società preletterate, non riusciamo spesso a renderci conto di quanto lontana sia una comunità arcaica da una moderna società politica. Finché la crescente sfera civile rimane un’estensione pragmatica del ruolo maschile nella divisione del lavoro, infatti, è solo questo e niente altro. In altre parole, l’esistenza dell’ineguaglianze all’interno del gruppo comunitario – ineguaglianza di capacità fisiche e mentali, di particolari abilità individuali, di carattere e di inclinazioni – non tendono ad essere ignorate o denigrate, ma al contrario ad essere compensate. L’uguaglianza, qui, è il riconoscimento delle ineguaglianze di cui nessuno ha colpa e che devono essere riequilibrate in base ad una non detta responsabilità sociale (Bookchin 1982).
Anche quando la sfera civile si espanderà, essa sarà ancora radicata nella vita domestica ed a questa intimamente interconnessa. Da qui il potere sacrale, orizzontale anziché verticistico, che circonda la donna nelle società primordiali. Solo quando la vita sociale viene sottoposta ad una differenziazione gerarchica ed emerge come spazio separato che va organizzato in proprio, troviamo conflitto tra sfera domestica e civile; un conflitto che introduce la gerarchia anche nella vita domestica e che sfocia non solo nella sottomissione della donna, ma anche nella sua squalifica. Allora, quegli aspetti più propriamente femminili, che la società arcaica valuta come un bene prezioso per la sopravvivenza, vengono degradati a tratti della subordinazione sociale. La capacità femminile di prendersi cura degli altri viene degradata a rinunzia, la sua tenerezza a obbedienza. Anche gli aspetti maschili propri all’uomo subiscono una trasformazione. Il suo coraggio diventa aggressività, la sua forza viene usata per dominare, la sua autoaffermazione si trasforma in egoismo, la sua determinazione in ragione repressiva, il suo atletismo è sempre più diretto alle arti della guerra e del saccheggio (Bookchin 1982).
È all’interno di una tale arcaica narrazione che il maschile va ad attingere le matrici generative di significato con cui continua a costruire storicamente la propria identità tradizionale. Identità che ancora gode di ottima salute all’interno delle società occidentali, in quanto estremamente funzionale all’assolvimento delle richieste sempre più competitive dei mercati globalizzati e al mantenimento dei principi di autorità e gerarchici di cui il nostro mondo ancora ha bisogno per legittimare il suo ordine. Se per un verso le società occidentali favoriscono il permanere di modelli maschili tradizionali, d’altro canto ne prescrivono contemporaneamente la sua decostruzione innestando un vero e proprio gioco perverso di comunicazioni paradossali, di doppi legami e incongruenze, che rende vittime entrambi i generi, messi nella condizione di imprigionarsi l’uno con l’altro, in un muto vincolo di controllo reciproco e etero-regolazione. Se favorisce la spinta emancipativa delle donne, la società lo fa in funzione di porre una sorta di contenimento agli aspetti della mascolinità che desidera espellere dalle proprie entità istituzionali. Limita così ciò che essa stessa concorre a creare e che a sua volta utilizza per disinnescare le istanze libertarie presenti nella critica radicale all’ordine e all’autorità patriarcale, che la liberazione femminile porta in dote. Tutto questo avviene attraverso un’astrazione dei modelli di mascolinità e femminilità che diventano in tal modo copioni di ruolo funzionali al mantenimento dell’ordine costituito, anziché mansionari legati semplicemente al genere di appartenenza. Il risultato è il paradossale invito che chiede agli uomini di rendersi più simili al genere femminile e alle donne di rendersi più simili al maschile, ricercando un’androginia psicologica funzionale al consumo delle merci e ai ritmi produttivi delle medesime.
3. Lavori maschili e lavori femminili? Uomini in crisi?
Lo studio di uno psicoterapeuta, oltre ad essere un mini laboratorio sociale, può essere considerato un piccolo osservatorio sul «disagio di una civiltà». Le psicologie cliniche e le psicoterapie, infatti, essendo orientate ad intervenire sulle manifestazioni del malessere umano, riescono a catturare, e a volte con largo anticipo, le diverse e più recenti configurazioni disfunzionali che caratterizzano il disadattamento e le difficoltà di uomini e donne in una data epoca storica, culturale e sociale (Cushman 1995; Inghilleri e Fasola 2005; Inghilleri e Gasparini 2009).
Nel corso di questi ultimi anni, nel mio lavoro di psicoterapeuta ho registrato un aumento considerevole della domanda di psicoterapia soprattutto da parte di persone di sesso maschile. Incremento a cui per altro è corrisposto un cambiamento delle problematiche riferite. Se generalmente a portare un uomo nello studio di uno psicoterapeuta − evento decisamente più raro, rispetto alla controparte femminile − era un qualche disagio molto specifico, di carattere quasi prettamente sessuale, come ad esempio la disfunzionalità della funzione erettile, il calo del desiderio, l’eiaculazione precoce e così via, ora si presentano invece uomini che il regista Almodovar non esiterebbe a definire sull’ “orlo di una crisi di nervi”. Le difficoltà che vengono portate allo psicoterapeuta, cioè, si manifestano sempre più come significativamente caratterizzate da temi molto ampi e generali, che investono l’identità nella globalità dei suoi processi di costruzione, e che mettono in risalto un profondo senso di inadeguatezza relativamente ai propri ruoli maschili e all’espressione della propria mascolinità.
Gli uomini che ho incontrato nel corso di psicoterapie talvolta anche lunghe e difficili, sono stati uomini non solo giunti nel mio Centro clinico perché preoccupati da una virilità messa in discussione nel rendimento delle loro performance sessuali, o dalla solitudine provata per l’incapacità di vivere relazioni affettive significative e stabili. Piuttosto, sono uomini che cercano sempre più di riattribuire senso e significato ad una mascolinità percepita come espulsa dal mondo; uomini che hanno tentato di riparare al disagio attraverso mille tentate soluzioni, mille auto-terapie, che risultando inefficaci si sono rivelate generative di un senso di maggior smarrimento e disorientamento.
C’è un film, Fight Club, tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, che rappresenta abbastanza bene la condizione del maschio postmoderno, perso in un mondo senza storia, e imprigionato tra la routine impiegatizia, «l’arredomania» e le palestre. Il protagonista impersonato da Edward Norton, consulente di una grande assicurazione, è il prototipo dello yuppie frustrato dalla vita contemporanea. Insonne, ansioso, ipocondriaco, stordito dal jet lag, trova un’apparente calma solo frequentando gruppi d’ascolto. Egli rappresenta il maschio postmoderno che ha perso il suo ruolo di cacciatore-raccoglitore (inteso come scontro e incontro con la natura), come si dice espressamente in un monologo del film, e che, incapace di reinventare la propria mascolinità e riposizionarsi in sintonia ai cambiamenti sociali, dà luogo a vere e proprie condotte devianti etero e auto-distruttive.
Tuttavia, questo film coglie solo alcune delle diverse modalità attraverso cui l’uomo esprime il proprio disagio rispetto a un mondo in cui il maschile non è più funzionale al mantenimento dell’ordine sociale. Dove il maschile è percepito come aggressivo, violento e va quindi controllato, espulso, addomesticato o rieducato, regressivamente, ai valori tradizionali per contrastare in qualche modo la spinta ad un cambiamento culturale antiautoritario di cui le donne sono sempre state inconsapevoli custodi (Bookchin 1982).
Altre forme di risposta al disadattamento maschile prevedono, ad esempio, la restaurazione di una cultura revanscista dell’ordine patriarcale. Come mette in evidenza Marco Deriu (2004), nel mondo occidentale sono nati movimenti di uomini che si pongono come obiettivo specifico quello di una ricostruzione o ridefinizione delle forme di maschilità e paternità in una prospettiva nostalgica. Quando queste soluzioni sono vissute come inadeguate o anacronistiche, perché troppo distanti dai costrutti attraverso cui un individuo si rappresenta pubblicamente e interiormente, si assiste spesso a un ripiegamento su se stessi, dove è il corpo questa volta, a raccontare disordine, disorientamento, paure, angosce e insicurezza (Faccio 2007). Gli esorcismi, in questo caso, passano attraverso il culto di un estetismo della virilità erculea ed eroica, o attraverso la modificazione espulsiva dei caratteri sessuali secondari femminilizzandosi quanto più possibile, oppure nello sperimentare una sessualità compulsiva ed estrema, dove l’imperativo ad essere riconosciuti nell’esibizione erotizzata di sé, diventa anche un’attribuzione di identità, una certezza di esistere.
Come mostrano tutti i contributi contenuti nel presente volume, il lavoro è sempre stato per il maschile il luogo d’elezione della propria conferma identitaria, pertanto svolgere lavori non maschili e di competenza più strettamente femminile per tradizione, cultura e cambiamento sociale comporta spesso un’estrema difficoltà, che nasce dall’incongruenza vissuta tra l’essere (uomo) e il fare (un lavoro da donne), diventando una perdita di status se non addirittura una vera e propria castrazione simbolica, una svirilizzazione dove non è più possibile istituire il fallo, “eretto” a simbolo della virilità, del punto d’onore, come fondamento della visione androcentrica che legittima il maschile, la sua etica e la sua estetica (Bordieu 1998).
Ciò pare avvenire, tuttavia, solo quando il lavoro è vissuto nei termini di un’imposizione esterna o come un demansionamento, o come un adattamento o ripiego dettato da condizioni di necessità. Al contrario, quando il ruolo lavorativo è scelto seguendo il proprio arbitrio e assecondando le proprie “vocazioni”, all’interno di una professione tipicamente femminile,la stessa mansione lavorativa svolta da un uomo ne riceve impreziosimento, un valore aggiunto, essendo ritenuto il maschile come più competente e più professionale aprioristicamente a livello sociale. Quindi, spesso, non è la mansione femminile che femminilizza l’uomo che la pratica, quanto piuttosto l’uomo che la svolge mascolinizza tale mansione, essendo il genere maschile una condizione di status “superiore” nella nostra cultura e nella nostra società. Diventa, al contrario, un problema di squalifica e di autostima, generatore di un malessere anche profondo, quando gli assunti di senso attraverso cui l’individuo costruisce la propria appartenenza di genere vengono vissuti come minaccia o con ostilità in quanto contraddittori con la propria auto-rappresentazione personale e sociale.
L’ingresso degli uomini nelle professioni tradizionalmente considerate “non” maschili, insomma, pone molte questioni rispetto alla propria identità, alle relazioni tra i generi e alle rappresentazioni sociali che riguardano la mascolinità e la femminilità e i saggi di questo volume testimoniano come eventi storici, culturali e sociali, assumano poi la forma di un testo incarnato, di una narrazione biografica coniugata al singolare, dove il problema psicologico e una sua riconfigurazione, divengono sempre prigionieri del dato sociologico.
4. Il rapporto tra generi: microinterazioni tra uomini e donne
Ho cominciato a interessarmi di sociologia e di psicologia di genere a seguito di un episodio, in apparenza banale, che mi capitò nel corso della mia attività professionale di psicologo clinico, mestiere quasi interamente svolto da donne e ambito scientifico di interesse decisamente molto di più femminile rispetto alla controparte maschile (Ponzio 2008).
Questo fatto, di cui io sono stato uno degli attori sociali coinvolti, racconta di come nel senso comune vi siano delle anticipazioni e delle costruzioni di ruolo implicite, legate al genere di appartenenza, che aprioristicamente definiscono l’universo femminile comunque come un genere minus habens rispetto al maschile, persino nei contesti e nei “territori” dove le donne sono più affermate e più competenti, sia per ragioni storiche, sia di tradizione, culturali e sociali.
In breve, nel corso di una perizia, una collega ed io avevamo appuntamento presso lo studio di un noto avvocato penalista, per definire gli obiettivi del nostro intervento e della nostra consulenza di parte a favore del suo assistito. I contrattempi che si erano sovrapposti nel corso della giornata mi obbligarono ad arrivare a quel primo appuntamento con un abbigliamento quanto mai improbabile e assolutamente fuori contesto rispetto alle regole implicite presenti nella cornice di quel tipo di interazione sociale. La collega arrivò impeccabile, totalmente aderente alle aspettative formali di ruolo, seria e professionale con la sua valigetta, senza nulla che potesse generare una qualsiasi perturbazione nella coerenza narrativa della ribalta su cui stava per andare in scena (Goffman 1967, 1969, 1977). Entrata nella stanza, l’avvocato l’accolse con un: “ Buongiorno Dottoressa, ma cosa ci tiene in quella valigetta? Non sarà per caso tutto palcoscenico!”. L’intenzione ironica non esordì simpatia quanto piuttosto imbarazzo. La collega avendo sentito messa in discussione la sua identità professionale e le sue competenze, da quel momento dovette dimostrare, più a se stessa che al pubblico, di essere all’altezza del compiti richiesti.
A quel punto, mentre osservavo questa scena, incuriosito, cominciai improvvisarmi etnometodologo, dando così degli strappi alla coerenza di copione pertinente a quella data situazione e ai rispettivi generi di appartenenza (Garfinkel 1967). Nulla… Nemmeno in quella circostanza venni considerato meno rispetto alla mia preparatissima collega.
Ora, da quella prima esperienza in cui il mio “occhio” cominciò a caricarsi di teoria, seguirono davvero molte altre situazioni in cui attraverso piccoli espedienti etnometodologici, ho cercato di disvelare quelle innumerevoli regole implicite che sono sottese in qualsiasi interazione uomo/donna, che quotidianamente utilizziamo per “governare” le nostre relazioni sia private che pubbliche, sia lavorative che amicali, sia superficiali che profonde (Giglioli e Dal Lago 1983).
Nella posizione sociologica tradizionale, il genere è un “comportamento di ruolo diffuso e appreso” alla base di un codice fondamentale attraverso cui le interazioni e le strutture sociali vengono elaborate. Per far si che le differenze nell’aspetto fisico tra uomo e donna non abbiano conseguenze sociali apprezzabili, bisognerebbe ristrutturare i criteri di organizzazione della società. Ciò che bisogna cercare di spiegare, infatti, non sono le conseguenze sociali delle differenze sessuali innate, quanto piuttosto il modo in cui queste sono state poste a garanzia dei nostri ordinamenti sociali e soprattutto il modo in cui l’operare delle istituzioni assicura che tali spiegazioni appaiano ben salde (Goffman 1977).
In qualsiasi società tutti i neonati, alla loro nascita, sono situati in una o nell’altra delle due classi sessuali. Questa classificazione, per configurazione fisica, permette un’identificazione mediante l’etichettamento legato al sesso e continua poi, anche attraverso altri segni biologici, per tutta la vita esemplificando cosi il prototipo della classificazione sociale. Inoltre, nella società contemporanea, sentiamo che la dualità maschio-femmina è una divisione sociale che opera in completa e realistica armonia con la nostra eredità biologica.
Fin dall’inizio dei nostri corsi di vita, infatti, le persone che sono collocate nella categoria maschile o femminile, sono trattate e acquisiscono esperienze diverse, godono e soffrono di aspettative differenti. Pertanto sebbene il genere sia la conseguenza sociale e non biologica dell’operare sociale, esso è tuttavia oggettivo in quanto esistono modalità d’apparire, sentire ed agire specificatamente connesse a uno dei due sessi d’appartenenza. Gli ideali di mascolinità e femminilità elaborati dalle società, inclusi gli attributi apprezzabili e disprezzabili caratteristici dei due sessi, sono alla base dell’identificazione intera della persona; laddove l’individuo costituisce il senso di sé riferendosi al suo sesso, si può quindi parlare di identità di genere (Salvini1993).
Inoltre, per ciò che riguarda la sessualità, bisogna sottolineare il fatto che questa ha una duplice caratterizzazione; una correlata alla categorizzazione (perciò parte del genere) che riguarda le forme di appartenenza, lo stile e l’abbigliamento e un’altra, completamente distaccata, collegata al ciclo di vita biologico che si esprime attraverso lo sviluppo delle cosiddette caratteristiche sessuali secondare, cioè genotipicamente e fenotipicamente definite.
Tale distinzione risulta essere molto importante, in quanto genere e sessualità non sono la stessa cosa, sebbene molto spesso quest’ultima si esprima proprio nelle classi sociali. Quando ci si riferisce a un attributo di genere è facile parlare di questioni che sono legate al sesso anche se questo risulta essere sbagliato, in quanto bisogna pensare al sesso come ad una proprietà degli organismi e non come ad una classe di essi. In quasi tutte le società i ruoli sociali di uomini e donne sono marcatamente differenziati ; per inciso, alle donne sono attribuiti poteri minori, un rango gerarchico subordinato e una vita centrata intorno alle occupazioni domestiche.
Le donne sono svantaggiate rispetto agli stipendi e al livello che possono raggiungere nelle loro occupazione, all’accesso a certe professioni e alle risorse creditizie o pratiche legali relative al nome. Dall’altra parte però si potrebbe anche avanzare l’idea che spesso siano un certo senso avvantaggiate in alcuni domini: escluse da gran parte dei lavori pesanti e godono di forme preferenziali di cortesia. Inoltre, attraverso un certo gesto ritualizzato o un altro, i maschi non mancano tuttavia di esprimere che considerano le femmine come esseri fragili e preziosi, da proteggere dalle cose sgradevoli della vita e a cui mostrare amore e rispetto. Le donne dunque, pur potendo essere definite come qualcosa di minor valore rispetto agli uomini, sono seriamente idealizzate e mitologizzate, mediante valori quali la maternità, l’innocenza, la gentilezza e l’attrattività sessuale e molte di esse sono tutt’ora profondamente convinte che tali differenze siano naturalmente caratterizzanti. Da tutto questo ne deriva una società che si preoccupa solo dell’uguaglianza giuridica, cioè che non prende in considerazione le condizioni fisiche o mentali delle persone, generando in tal modo una disuguaglianza tra uguali che a stento siamo capaci di riconoscere e pertanto di cambiare. È solo attraverso la cultura che noi possiamo dare forma alla nostra umanità o perderla e i contributi raccolti in questo volume permettono non solo una riflessione sul lavoro e sulla relazione tra lavoro e costruzione delle identità maschili e femminili; consentono anche, in termini molto più estesi, di domandarci in quale tipo di società ognuno di noi vuole vivere.
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