- Articoli di Psicologia clinica
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- 13 Ottobre 2015
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Presupposti epistemologici della psicologia
di Alessandro Antonietti
1. La psicologia scientifica
La psicologia si interessa della mente. Anche se il nome di questa disciplina è relativamente recente – inizia a circolare in Europa nel Cinquecento – l’indagine dei fenomeni mentali ha un ben più lungo passato, giungendo quasi a coincidere con le prime forme documentate del pensiero umano. Tuttavia, la “psicologia” che si ha oggi soprattutto presente nell’ambito dell’esercizio della professione psicologica e che viene a costituire la parte prevalente del bagaglio culturale che si intende far acquisire ai futuri psicologi è la cosiddetta “psicologia scientifica”, la cui nascita è in genere collocata negli ultimi decenni dell’Ottocento. Che cosa ha di particolare questa psicologia rispetto alla ricerca e alla riflessione precedente sulla mente?
La psicologia scientifica studia sostanzialmente i medesimi fenomeni indagati dalla psicologia pre-scientifica. Per esempio, negli scritti di Aristotele si trovano trattati argomenti – quali la percezione, la memoria, l’immaginazione, le emozioni, il sonno e il sogno – di cui si interessa ancora la psicologia odierna. Ciò che contraddistingue la psicologia scientifica non è quindi l’oggetto della disciplina: essa non si differenzia perché studia fenomeni nuovi rispetto a quelli studiati nel passato. La diversità consisterebbe piuttosto nel modo con cui i fenomeni mentali vengono indagati, ossia nel metodo. Che cosa allora caratterizza le procedure di ricerca della psicologia scientifica?
Talvolta si sostiene che la psicologia sorta sul finire del secolo scorso si distingue da quella precedente, di tipo filosofico, per il fatto che non procede sulla base di pure speculazioni ma attraverso rimandi all’esperienza empirica. Si può tuttavia osservare che il riferimento a dati di tipo sensoriale non mancava nella psicologia pre-scientifica e che, per converso, anche nella psicologia scientifica sono presenti concetti e argomentazioni che hanno una base puramente teorica senza che vi sia la possibilità di una loro riconduzione a elementi di ordine empirico. In altre parole, così come la psicologia cosiddetta “filosofica” o “razionale” si avvale, oltre che di procedimenti puramente speculativi, di constatazioni di tipo empirico, così la psicologia scientifica non consiste unicamente di affermazioni sostenute, direttamente o indirettamente, da evidenze empiriche.
Queste considerazioni, oltre a suggerire una maggior continuità e gradualità nel passaggio dalla psicologia pre-scientifica a quella scientifica, inducono a considerare più approfonditamente quale sia lo statuto epistemologico della psicologia: per quali motivi consideriamo – a ragione o a torto – la psicologia che abbiamo oggi soprattutto presente una disciplina scientifica? In altre parole: la psicologia compie delle affermazioni circa la natura e il funzionamento della mente ed è indubbio che la maggior e più frequente garanzia del fondamento di tali affermazioni che viene oggi invocata è la loro scientificità; ma che cosa significa che un’affermazione è scientifica?
La psicologia è un insieme di discorsi circa una parte o aspetto della realtà che si suole designare come mente. La concreta esistenza della disciplina “psicologia” è data pertanto da ciò che gli psicologi dicono e scrivono circa la mente. La psicologia, come tutta la scienza, ha quindi un costitutivo carattere pubblico, sociale, linguistico (Agazzi, 1976): si compiono indagini sui fenomeni mentali per poter poi enunciare qualcosa circa ciò che si è studiato. Non si eseguono ricerche per accrescere il proprio privato sapere né per tenerne i risultati chiusi in un cassetto; si compiono ricerche affinché i loro risultati possano essere presentati ad altri, discussi, criticati, approvati, presi come punto di partenza per ulteriori sviluppi. E perché questo possa avvenire occorre che le conoscenze acquisite – o che si presume di aver acquisito – attraverso il lavoro di ricerca assumano una forma verbale (Mandler e Kessen, tr. it. pp.38-40).
Riconosciuto che lo scopo di una disciplina scientifica è quello di sviluppare dei discorsi sulla realtà di cui essa si interessa, si tratta ora di stabilire qual è il tipo di fondamento che tali discorsi devono avere per poter essere accettati come scientifici (salva restando la possibilità di dire legittimamente qualcosa sulla realtà basandosi su altri fondamenti, di tipo non scientifico).
2. Il fondamento degli asserti scientifici
Rifacendoci a una distinzione posta da Hume e successivamente ripresa da autori quali Russell e Wittgenstein, possiamo ritenere che in un discorso compaiano proposizioni di due generi: proposizioni analitiche e proposizioni empiriche. Le prime stabiliscono dei rapporti tra termini che si giustificano in base agli aspetti puramente sintattici, ossia in base al tipo di relazioni logiche che tra essi sussistono. La verità delle proposizioni analitiche può essere stabilita a priori, prescindendo da qualunque confronto con l’esperienza, prendendo in considerazione unicamente le regole che presiedono ai collegamenti che si possono compiere tra i simboli previsti dal linguaggio che si sta utilizzando. Alcune discipline scientifiche – per esempio, la matematica, almeno secondo la versione offertane da Hilbert – si ritiene che consistano esclusivamente di proposizioni di questo genere, da valutarsi soltanto in riferimento ai loro aspetti formali. Le proposizioni empiriche richiedono invece che, per stabilire la loro fondatezza, si faccia riferimento a ciò che ci consta della realtà attraverso la nostra esperienza sensoriale.
Le proposizioni empiriche in genere sono piuttosto articolate. Esse tuttavia, secondo quanto proposto da Whitehead e Russell, dovrebbero poter essere scomposte in parti semplici non ulteriormente riducibili: da proposizioni empiriche molari si dovrebbe così poter passare a proposizioni empiriche elementari o, secondo l’espressione di Wittgenstein, atomiche. Le proposizioni atomiche sono espressioni autonome, logicamente distinte le une dalle altre, costituite da connessioni di nomi (e i nomi stanno per degli oggetti) che si riferiscono a dei fatti, ovvero che stabiliscono il sussistere di uno stato di cose (un fatto è uno stato di cose che esiste realmente). Diversamente detto (almeno, secondo un’interpretazione che è stata data del pensiero di Wittgenstein), le proposizioni atomiche coinciderebbero con degli asserti osservativi semplici, ossia con enunciati relativi al verificarsi di un certo fenomeno empiricamente constatibile in un luogo e in un tempo precisato.
In conclusione, nell’ambito di un discorso scientifico potrebbero legittimamente comparire tre generi di proposizioni:
-le proposizioni formali, la cui verità o falsità dipende dalla non contradditorietà o contradditorietà dei rapporti logici da esse implicati;
-le proposizioni molecolari, la cui verità dipende sia dalla correttezza logica del legame che le mette in rapporto con le proposizioni elementari di cui si compongono, sia, seppur indirettamente, dalla verità di queste ultime;
-le proposizioni elementari, la cui verità dipende alla loro corrispondenza con i fatti empiricamente rilevabili cui si riferiscono.
Poiché è difficile ritenere che la psicologia possa consistere unicamente di proposizioni analitiche – non essendo la mente una realtà puramente formale definibile attraverso postulati di cui si abbia un’intuizione o attraverso la creazione di convenzioni da cui si possa poi procedere per sola deduzione – ed avendo considerato come la base delle proposizioni empiriche – le quali dovrebbero costituire il corpo prevalente della disciplina che qui ci interessa – vada ricercata nelle proposizioni elementari, al fondamento di queste ultime dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione. In altre parole, si tratta di chiedersi: come si giustifica la verità di una proposizione atomica? Che cosa vuol dire che una proposizione atomica è vera se vi è corrispondenza tra ciò che essa enuncia è ciò che effettivamente accade nella realtà?
La risposta del cosiddetto fondazionismo è che le proposizioni elementari si fondano (da qui il nome della posizione in questione) sui dati sensoriali. Anzi, secondo il positivismo logico (cui è possibile ricondurre autori quali Carnap, Neurath, Reichenbach, Schlick, Weissman e che ebbe un certo influsso su vari psicologi, tra i quali Spence e Skinner), esse acquisirebbero significato proprio attraverso il rapporto con i corrispondenti dati sensoriali. Secondo la nota affermazione che “il senso di una proposizione sta nel metodo della sua verifica”, le proposizioni empiriche hanno significato soltanto se sono in grado di indicare un modo empirico per stabilirne la verità o falsità. Un tale modo “empirico” dovrebbe permettere di rilevare sensorialmente delle informazioni che permettano di accettare o rifiutare la proposizione in quanto, rispettivamente, coincidente o non coincidente con i dati sensoriali stessi.
Nel discorso scientifico, tuttavia, compaiono abbondantemente, negli enunciati che vengono emessi, termini “teorici” che non hanno corrispettivo in alcun dato sensoriale. Quale, per esempio, potrebbe essere il genere di esperienza sensoriale che attesti la sostenibilità o no di affermazioni relative a un’”inibizione”, uno “schema mentale”, un’ “interferenza proattiva”? Per questi termini non vi sono elementi empirici che possano condurre a riconoscerne direttamente la presenza o assenza. Potrò constatare che in una data circostanza un certo comportamento atteso non si manifesta, ma non constatare, semplicemente aprendo gli occhi, l’inibizione di quel comportamento; potrò rilevare come un precedente apprendimento influisca su uno successivo, ma non posso vedere o toccare direttamente l’interferenza del primo sul secondo. Tuttavia, a dispetto di questi rilievi, è possibile indicare una base empirica per questi termini?
Secondo Craig, termini di questo genere sarebbero da eliminare dalla scienza mostrando come non siano necessari. Si tratterebbe ciò di formulare il sapere acquisito da una disciplina in affermazioni in cui non compaiano termini teorici, bensì avvalendosi semplicemente di descrizioni in cui si stabiliscano connessioni tra elementi osservativi. Ma, prescindendo pure dalla questione della praticabilità de facto di una tale proposta, vi è la possibilità de iure di compiere una totale eliminazione degli elementi teorici? Le considerazioni che svolgeremo più avanti circa le theory-ladness delle osservazioni (vedi quarto paragrafo) inducono a nutrire dei dubbi. Qualunque rilievo osservativo, si dirà, sottende la condivisione di una teoria e l’eliminazione di questa a favore di una sua esposizione in termini puramente osservativi chiamerebbe in causa altri elementi teorici da questi ultimi implicati e così ad infinitum.
Se proprio non è possibile eliminare i termini teorici dal discorso scientifico, si potrebbe pensare, come sostenuto da Russell, a una loro sostituzione o, come suggerito da Carnap, a una loro riduzione o traduzione. In altre parole, si tratterebbe, in un discorso scientifico, di mettere, al posto dei termini teorici, asserti osservativi necessari per permettere di confermare o rifiutare le proposizioni in cui tali termini compaiono.
Una forma di riduzionismo di questo genere è il fisicalimo: agli enunciati teorici occorrerebbe far corrispondere enunciati espressi nel linguaggio della fisica, ossia enunciati che facciano riferimento a stati fisici empiricamente constatabili, in modo che tra i due generi di affermazioni vi sia competa intertraducibilità. Per esempio, secondo Carnap (1932-1933) un enunciato come “Il signor A adesso è irritato” andrebbe convertito in un enunciato del medesimo contenuto “il quale [ …] asserisce l’esistenza di quella struttura fisica (microstruttura) del corpo del signor A (in particolare, il suo sistema nervoso centrale) caratterizzata da un’elevata frequenza di pulsazioni e di respiro”.
Un’altra forma di riduzionismo è l’operazionismo elaborato da Bridgman, secondo il quale i termini teorici andrebbero sostituiti dalla descrizione dell’insieme di operazioni (fisiche, matematiche, ecc.) necessarie per la loro definizione. Si può però obiettare che per certi termini teorici sono possibili più definizioni operazionali. Per esempio, il concetto di “lunghezza” può essere definito operazionalmente attraverso l’impiego di un metro o attraverso un procedimento di triangolazione; ma se ho due differenti definizioni operazionali dovrei avere due differenti concetti (Brown, 1977, tr. it. pp.38-39). Inoltre la descrizione di un elemento teorico in termini operazionali chiama in caua altri elementi teorici (nell’esempio di prima, il concetto di “metro”, ecc.) che andrebbero anch’essi operazionalizzati, ma questa ulteriore traduzione operazionale chiamerebbe in causa nuovi elementi teorici: si avrebbe così un regresso all’infinito a cui nessuna riduzione operazionale potrebbe porre termine.
Al di là delle specifiche difficoltà in cui incorrono le varie forme di riduzionismo, esse sembrano non tenere conto dell’effettivo svilupparsi della conoscenza scientifica. Questa, infatti, non procede per riduzioni ma per estensioni. La scienza cerca infatti di applicare un concetto rivelatosi produttivo a nuovi fenomeni tentando di mostrare come anche questi, oltre a quelli per cui originariamente il concetto fu elaborato, possano essere descritti o spiegati nei termini di quel concetto. Se, al contrario, si seguissero i dettami del riduzionismo, si dovrebbe continuamente ridefinire il concetto facendo in modo che esso includa i fenomeni via via scoperti anziché estenderlo, mantenendone fermo l’iniziale significato, a nuove realtà (Brown, 1977). Riprendendo un precedente esempio, una volta rilevato che processi di inibizione non riguardano soltanto le risposte emotive ma anche quelle cognitive, invece di concludere che il termine teorico “inibizione” riguarda un meccanismo comune a vari aspetti della vita mentale, dovrei modificare la definizione del concetto in modo che la sua traduzione empirica comprenda anche asserti osservativi relativi ad aspetti cognitivi della mente. Come rileva Hempel, per i termini scientifici bisogna quindi ammettere un’ “apertura di significato”, ossia rinunciare a una loro definizione completa di tipo empirico e ammettere che sia possibile estendere il loro uso anche in casi non contemplati dalla loro originaria definizione di tipo osservativo od operazionale.
Questa conclusione ci conduce a una terza possibilità che va ad affiancarsi all’eliminazione e alla sostituzione dei termini teorici: questi ultimi possono essere mantenuti nel discorso scientifico purché si stabiliscano, tramite apposite regole, delle corrispondenze tra questi ultimi ed elementi di tipo empirico. In quest’ultima prospettiva si riconosce che in un discorso scientifico i termini teorici in genere non ricorrono isolatamente, ma sono parte di un sistema concettuale; i termini teorici costituiscono dei complessi di relazioni. Non si tratterebbe quindi di cercare di dare, attraverso traduzioni in descrizioni empiriche, significato al singolo termine teorico, ma al sistema di rapporti in cui esso è inserito. Ciò comporta che un singolo termine teorico potrebbe anche non avere un collegamento diretto con il piano empirico, ma potrebbe ricevere senso indirettamente da questo attraverso il legame che esso ha con uno o più altri termini teorici i quali sono in contatto con l’empiria. Secondo un’immagine proposta da Hempel (1952, p.36), “una teoria scientifica può essere paragonata a una complessa rete spaziale: i suoi termini sono rappresentati dai nodi, mentre i fili che li connettono corrispondono, in parte, alle definizioni e, in parte, alle ipotesi fondamentali e derivate incluse nella teoria. L’intero sistema naviga, per così dire, sopra il piano dell’osservazione ed è ancorato a quest’ultimo da regole di interpretazione. Queste possono essere viste come funi che non sono parte della rete ma collegano certi punti della rete a specifici luoghi del piano dell’osservazione”.
3. La base eempirica della scienza
Nel paragrafo precedente si è giunti alla conclusione che, in un discorso scientifico il quale non sia unicamente di tipo formale, occorre che quanto si va affermando trovi giustificazione in ciò che accade effettivamente in una realtà che sia empiricamente rilevabile. Non sembra tuttavia necessario, affinché gli enunciati abbiano senso e possa essere vagliata la loro aderenza con la realtà, che ciascuna unità di cui si compone il discorso abbia una diretta controparte in un’esperienza sensoriale. Pare sufficiente, anche perché non potrebbe essere diversamente, che la trama concettuale del discorso che si va svolgendo trovi corrispondenze empiriche soltanto in alcuni punti. Ma in questi punti come avviene il collegamento tra il piano della teoria e quello delle osservazioni? Ovvero: di che natura è il legame che permette alla rete teorica di restare “agganciata” alla realtà empirica?
Nell’ottica del Neopositivismo dovrebbero essere gli enunciati protocollari a fungere da ponte tra elementi teorici e fattualità empirica. Un enunciato protocollare è un’affermazione relativa a un’esperienza sensoriale compiuta da un osservatore di cui si indica il nome e per la quale si riporta il luogo e il tempo in cui è avvenuta. Un esempio di enunciato protocollare fornito da Neurath (1932-1933) è il seguente: “Protocollo di Otto alle 3 e 17: [Il pensiero-parola di Otto alle ore 3 e 16 era: (Alle 3 e 15, nella stanza, un tavolo era percepito da Otto)]”.
Un enunciato osservativo è invece un’affermazione del tipo sopra descritto che non contiene rimandi all’osservatore. Si può pensare a un enunciato osservativo come a ciò che può derivare dall’aver rilevato un accordo tra più enunciati protocollari emessi da vari ricercatori che hanno assistito al medesimo fenomeno: poiché tutti, indipendentemente dalle loro individuali caratteristiche e dalla loro particolare situazione, riferiscono la medesima esperienza sensoriale, quest’ultima può essere descritta senza che sia necessario precisare le specifiche condizioni soggettive in cui essa ha avuto luogo. Riprendendo l’esempio precedente, se più osservatori posti nella medesima stanza avessero formulato enunciati protocollari identici a quello sopra riportato, si sarebbe potuto compendiare il caso attraverso l’enunciato osservativo “Alle 3 e 15, nella stanza era percepibile un tavolo”.
Tuttavia, enunciati come quelli di cui si è detto non scaturiscono soltanto dal processo sensoriale che si sviluppa nell’osservatore. Essi non possono essere considerati come dei dati che si impongono di per sé, immediatamente e direttamente, al soggetto percipiente in modo tale da “vincolarlo” a quella particolare espressione cosicché egli sia “costretto” a riferire in quel modo e non diversamente. Nel caso sopra esaminato, pur formandosi nei vari osservatori le medesime immagini retiniche, vi potrebbe essere chi riferisce di aver visto un tavolo, chi una superficie rettangolare ai cui angoli sono affisse quattro gambe, chi un mobile utile per posarvi degli oggetti, ecc.
Perché si registri accordo tra vari osservatori non è sufficiente che tutti siano di fronte al medesimo evento e che in tutti si sviluppi il medesimo processo sensoriale; occorre anche che tutti condividano i medesimi assunti circa ciò che è rilevante in quell’evento, circa il livello di analisi e di descrizione richiesto, circa l’universo concettuale e linguistico cui fare riferimento nella descrizione, ecc. In altre parole, gli asserti-base che dovrebbero permettere di tenere ancorata la rete teorica della scienza alla realtà empirica hanno in sé una quota di pre-consenso intersoggettivo di natura convenzionale. In alcuni casi si tratta di un esplicito accordo che si stabilisce tra i ricercatori riguardo i criteri da tenere presente nella formulazione degli enunciati osservativi; in altre circostanze è un accordo implicito prodottosi sulla base di tradizioni o consuetudini. In ogni caso, è come se nelle discipline scientifiche, o nei vari loro settori, vi fosse una virtuale “giuria di esperti” che sancisce quali sono i tipi di enunciati-base che devono sorreggere le argomentazioni. Ciò che è importante sottolineare è che non sono gli oggetti indagati a imporre di per sé le caratteristiche di tali enunciati; tali caratteristiche sono decisioni arbitrarie – ossia non dettate dalla natura stessa delle cose, anche se culturalmente e storicamente giustificate – della comunità scientifica. Come sostiene Popper (1934), “le esperienze possono motivare una decisione, e quindi l’accettazione o il rifiuto di un’asserzione, ma un’asserzione-base non può essere giustificate da esse, più di quanto non possa essere giustificata battendo un pugno sul tavolo”.
Riprendendo l’esempio precedente del tavolo, un soggetto posto di fronte a quel particolare stimolo (il tavolo) potrebbe descrivere la propria esperienza percettiva a vari livelli: potrebbe descriverla in termini di linguaggio quotidiano e allora direbbe di vedere un tavolo, appunto; potrebbe tentare di descriverla in termini più analitici, magari geometrici: direbbe quindi di essere di fronte a una superficie rettangolare, ecc.; potrebbe descriverla, se istruito in proposito, sulla base delle sensazioni elementari che gli sembra di poter avvertire introspettivamente; potrebbe, se munito di appositi strumenti, descriverla in termini fisici, venendo ad affermare che i suoi organi di senso sono investiti da onde elettromagnetiche di una certa frequenza, ecc. L’essere di fronte a un tavolo non determina di per sé il tipo di asserto-base che di tale esperienza l’osservatore deve pronunciare. Sarà invece la condivisione, implicita o esplicita, di una certa prospettiva che renderà accettabile per una certa comunità scientifica che di fronte al tavolo l’osservatore riferisca di vedere una superficie rettangolare ecc. oppure di essere stimolato da onde elettromagnetiche ecc. E la decisione di fondare i propri discorsi su referti osservativi espressi in termini geometrici oppure fisici dipende dal livello di analisi che si è stabilito di adottare e questa decisione non è suggerita dall’esperienza sensoriale stessa ma dipende da una scelta che in una certa prospettiva di ricerca si è determinata al riguardo, anche se non in modo così “rude” come il battere un pugno sul tavolo.
In conclusione, come sostiene Popper (1934) in un noto brano, “la base empirica della scienza oggettiva non ha in sé nulla di ‘assoluto’. La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. E’ come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o ‘data’, e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili per sorreggere la struttura”.
In sintesi, la rete teorica in cui è intessuto il discorso scientifico è ancorata alla realtà, come si è visto nel precedente paragrafo, soltanto in alcuni suoi punti. In tali punti discendono, verso il terreno dell’empiria, le “palafitte” che dovrebbero sorreggere l’intera rete. Tali agganci non sono tuttavia costituiti da evidenze sensoriali che si impongono di per sé. Essi consistono invece di dati sensoriali il cui “formato”, il cui genere, il cui livello di analiticità e dettaglio è stabilito convenzionalmente dalla comunità scientifica.
4. Osservazione e teoria
I fondamenti empirici della scienza non sono soltanto “malfermi” perché includono un aspetto di arbitrarietà come evidenziato nel precedente paragrafo. Essi risultano problematici anche perché sottendono invece sempre un qualche elemento teorico il quale trapela, per esempio, dal modo con cui l’osservatore seleziona, organizza e interpreta la propria esperienza percettiva e dal modo con cui la traduce in una formulazione linguistica. Sembra, cioè, difficile sostenere che vi siano delle esperienze sensoriali pure, neutre, prive di contaminazioni con la sfera dei concetti, degli atteggiamenti e delle predisposizioni, le quali possano fungere da fondamento ultimo del discorso scientifico. In altre parole, i dati empirici sono sempre intrisi di teoria (theory-laden).
La theory-ladness delle osservazioni viene sostenuta con varie argomentazioni. In primo luogo si fa notare come vi siano situazioni percettive in cui sono possibili varie interpretazioni. Al riguardo si citano noti casi di figure ambigue – per esempio, il cubo di Necker, l’anatra-coniglio, la giovane e la vecchia – in cui la medesima configurazione grafica può essere vista in due modi differenti. In secondo luogo, vi sono situazioni in cui le attese che l’osservatore nutre nei confronti dello stimolo che ha di fronte lo inducono a interpretare quest’ultimo in un certo modo anziché in un altro modo pur possibile. Sono questi i casi in cui elementi del contesto, attualmente presenti o esperiti in precedenza, portano a interpretare stimoli come lettere anziché come numeri oppure i casi in cui le condizioni del soggetto – per esempio, la fame o la paura – lo inducono a vedere in stimoli ambigui oggetti consonanti con lo stato in cui ci si trova. In terzo luogo si rammentano le situazioni in cui ciò che viene percepito dipende dalle conoscenze di cui si dispone. Per esempio, posti nelle vicinanze di un’industria chimica un bambino percepirà uno sgradevole odore di uova marce mentre un tecnico percepirà un odore di biossido di zolfo in quanto il sapere che i due individui hanno al riguardo è diverso (Brown, 1977). In evenienze di questo tipo si constata quindi che elementi di natura non percettiva, quali le aspettative o le conoscenze, orientano la percezione influendo su ciò che in questa viene selezionato, enfatizzato, riportato.
Ulteriori conferme della theory-ladness delle osservazioni deriverebbero dalla constatazione che anche gli strumenti di rilevazione dei dati empirici, ampiamente utilizzati in tutte le discipline scientifiche, portano con sé delle teorie. Il cannocchiale o il microscopio, per esempio, sottendono un insieme di nozioni di ottica e la fiducia che viene accordata a quanto è possibile rilevare attraverso tali congegni dipende dal fatto che si condividono i principi fisici su cui essi sono basati. E le medesime considerazioni possono valere per un elettroencefalografo, un tachistoscopio, un videoregistratore. C’è poi chi si spinge ancora oltre, affermando che non soltanto gli strumenti artificiali di rilevazione sensoriale, ma anche quelli naturali, sono impregnati di elementi teorici. Come afferma Popper, “gli organi di senso incorporano teorie”, nel senso che i nostri sistemi percettivi sono costituiti in modo tale da recepire particolari gamme di stimoli e da elaborare questi, tradotti in treni di impulsi nervosi, in un determinato modo; sistemi sensoriali diversamente costituiti porterebbeo a ricevere altre stimolazioni e a esperirle in modo differente.
Da questi rilievi vengono tratte conseguenze per il fondamento empirico della scienza. Si sostiene infatti che il significato di ciò che viene rilevato attraverso i sensi cambia secondo la particolare prospettiva in cui si situa l’osservatore. Tale prospettiva dipende dalle preventive conoscenze di cui egli dispone, dal quadro teorico che egli condivide, dalle ipotesi che egli ha formulato. Secondo l’esempio proposto da Hanson (1958), se Tycho Brahe e Keplero si fossero trovati insieme ad osservare il sorgere del sole, essi avrebbero visto cose diverse: il primo, sostenitore della teoria geocentrica, avrebbe visto il sole muoversi attorno alla terra; il secondo, difensore della teoria eliocentrica, avrebbe visto la terra spostarsi attorno al sole.
Stando così le cose, non vi sarebbero criteri esterni alle teorie stesse utili a stabilire quale interpretazione sia quella corretta; in mancanza di un elemento empirico indipendente e comune le teorie diventano tra loro incommensurabili. Diversamente detto: non sarebbe possibile invocare dati empirici neutri per avvallare le proprie affermazioni perché ogni dato empirico, essendo intriso di elementi teorici, viene “ritagliato” sulla base della particolare prospettiva che si è adottata e il suo significato muta se si cambia la prospettiva di partenza.
A fronte di queste estrapolazioni epistemologiche, bisogna innanzi tutto distinguere l’esperienza percettiva dalla sua denominazione o interpretazione. Il fatto che un medesimo evento sia chiamato in modo diverso – si veda il precedente esempio degli scarichi industriali – o che sia diversamente “letto” secondo il sistema teorico in cui è inserito – si veda l’esempio di Brahe e Keplero – non significa che i soggetti che diversamente lo denominano o interpretano non abbiano la medesima esperienza sensoriale. La sensazione olfattiva del bambino e del tecnico, la scena visiva che si presenta ai due astronomi sono le medesime; la denominazione e l’interpretazione si giustappongono all’esperienza percettiva, non la costituiscono.
Ma anche le situazioni in cui la prospettiva teorica interviene già nella fase di costituzione del percetto – e non semplicemente nel suo etichettamento verbale o nella sua spiegazione – orientandone il significato, non devono condurre a conclusioni relativistiche. Infatti, se la teoria impregna le osservazioni, non è tuttavia essa che le produce. La teoria, cioè, non è la sola componente che determina ciò che viene esperito. Quest’ultimo risulta anche dall’azione del mondo esterno su di noi e quindi è determinato anche dalle caratteristiche di tale mondo. Se prendo in mano un volume e il titolo riportato sulla copertina mi informa erroneamente che si tratta degli Elementi di Euclide mentre in realtà il testo è quello dell’Odissea, benché io mi aspetti di leggere qualcosa di geometria non posso non riconoscere che nelle pagine interne trovo scritto qualcosa di diverso rispetto a ciò che ero predisposto a recepire. Ci sono quindi dei limiti alla varietà delle possibili interpretazioni: benché in un canto dell’Odissea i lettori possono cogliere vari significati, essi non potranno mai leggervi dei teoremi di geometria.
Le considerazioni svolte circa la theory-ladness delle osservazioni sottolineano tutt’al più che gli organi di senso ci forniscono un materiale sì strutturato, ma ancora malleabile da parte dell’orizzonte concettuale in cui esse andranno a inserirsi. Ciò ovviamente non significa che possiamo interpretare a nostro piacimento ciò che si offre ai nostri sensi né che le nostre apsettative o ipotesi non possono mai essere smentite dall’esperienza perché questa e da esse informata. Benché i dati sensoriali abbiano una componente concettuale, essi possono costringere, nel caso non vi si adeguino, a rivedere gli assunti da cui il ricercatore parte e possono dire qualcosa circa la maggior o minor corrispondenza di teorie rivali rispetto alla realtà dei fatti. Infatti, nonostante le esperienze empiriche ricevano un particolare significato secondo la prospettiva in cui sono collocate, non per questo esse hanno significato soltanto dentro quella prospettiva: esse, pur assumendo un diverso senso, possono dire qualcosa anche a chi parte da un diverso punto di vista. Rimane tuttavia innegabile che anche le considerazioni sopra svolte portano ad ammettere che nella scienza l’empiria non è una base neutra e indiscutibile cui ancorare le affermazioni e che non ci si può appellare ai dati sensoriali quale tribunale supra partes per corroborare o falsificare le affermazioni.
5. Gli sfondi concettuali
Le considerazioni svolte nei due precedenti paragrafi hanno condotto a riconoscere che il fondamento empirico che viene invocato a giustificazione dei discorsi sviluppati entro una disciplina scientifica non è un dato che si impone di per sé, ma è un qualcosa che viene trovato a partire da scelte e presupposti teorici i quali, in un certo qual modo, lo impregnano. Il terreno su cui si infiggono le palafitte della scienza o, secondo altra immagine, in cui si àncora la rete concettuale di una teoria non è quindi un terreno “neutro” ma un terreno che assume forma secondo la particolare prospettiva che si è scelto di adottare. E tale prospettiva è sì in parte determinata dalle caratteristiche del terreno – le quali possono rendere una certa prospettiva più o meno adeguata rispetto alle realtà che si vogliono studiare – ma per altra parte dipende da convenzioni o assunti impliciti condivisi dal ricercatore. Si può quindi immaginare che i discorsi scientifici affondino le proprie radici in due sfere: quella della realtà fattuale e in quella delle presupposizioni.
Queste ultime talvolta hanno una natura contingente, nel senso che dipendono dallo specifico punto che viene indagato o dai particolari strumenti che in tale indagine vengono utilizzati. Altre volte tali presupposizioni hanno un carattere più sistematico e pervasivo, sono cioè insiemi organici di credenze e preferenze che orientano e strutturano l’intero campo della ricerca.
Già Collingwood era giunto a riconoscere che alla basa dell’impresa scientifica vi sono potenti assunti di base indimostrati. Egli ritenne che il significato di un’affermazione si comprenda soltanto in relazione alla domanda o al problema per il quale essa è stata avanzata. Ma ogni questione contiene in sé dei presupposti. Tali presupposti possono essere relativi se rinviano a ulteriori domande oppure assoluti se non sono risposte a ulteriori domande ma sono degli assunti primitivi da cui tutto poi deriva. Mentre i presupposti relativi possono essere, secondo Collingwood, veri o falsi, non sono né veri né falsi quelli assoluti. Il loro valore dipende dalla loro efficacia metodologica, dalla loro potenzialità euristica e tale valore dipende dal momento e dalle situazioni in cui sono chiamati in causa.
Seppur in diverso contesto, negli anni Quaranta Pepper propose anch’egli di riconoscere che la ricerca scientifica implica degli assunti indimostrati – qui chiamati visioni del mondo – che le dànno forma. Le visioni del mondo sarebbero modelli generali i quali forniscono al ricercatore le categorie per compiere le proprie indagini fornendo i concetti basilari circa l’oggetto di studio e le regole per valutare le affermazioni compiute a tal riguardo. Esempi di questi concetti sono la causalità, il rapporto parte-tutto, il cambiamento. Le visioni del mondo influiscono inoltre sulla scelta dei metodi da impiegare nella ricerca. Per quanto riguarda la psicologia, le quattro visioni del mondo fondamentali che a Pepper pare di poter ravvisare sono il formismo (la psicologia viene intesa come una disciplina che cerca di costruire dei sistemi raggruppando elementi con proprietà simili; ne sono esempi le teorie fattorialiste o il DSM IV), l’organicismo (lo sviluppo della mente viene inteso come passaggio tra stadi e l’individuo è inteso, sulla scorta della metafora con l’organismo vivente, come un tutto attivo; è paradigmatica al riguardo la teoria di Piaget), il meccanicismo (il soggetto è inteso come un’entità passiva il cui funzionamento è concepito come concatenazione di parti indipendenti; ne sono esponenti il comportamentismo watsoniano, l’associazionismo in generale, l’orientamento Human Information Processing) e il contestualismo (vedi Moderato, 1995). Le visioni del mondo sono indipendenti le une dalle altre e sono tra loro incommensurabili.
Il termine più noto con cui successivamente è stato designato da parte dell’epistemologia il complesso di assunti che sta alla base della conoscenza scientifica è però quello, introdotto da Kuhn (1962), di paradigma. I paradigmi sono Weltanschaungen e modelli di ricerca ampiamente riconosciuti all’interno della comunità scientifica. Essi determinano quali domande abbiano senso in una disciplina – il cui lavoro è da Kuhn concepito come una soluzione di puzzle, e di che tipo siano le risposte che vengono cercate. Anche i paradigmi sono tra loro incommensurabili in quanto stanno a monte rispetto a qualsiasi indagine empirica i cui dati non possono permettere di stabilire l’adeguatezza del paradigma entro cui sono stati acquisiti proprio perché da tale paradigma essi sono costitutivamente informati. Nella storia della scienza si alternerebbero, secondo Kuhn, periodi, detti normali, in cui un determinato paradigma è da tutti accettato e momenti rivoluzionari in cui esso è messo in discussione e sostituito da un altro paradigma. La scienza normale è dogmatica, nel senso che i ricercatori si adeguano a degli standard condivisi e pensano tutti entro un certo sistema teorico utilizzando le medesime categorie concettuali. Durante i periodi di scienza normale i paradigmi organizzano la ricerca, nel senso che indicano quali sono gli eventi rilevanti da indagare e stabiliscono il significato di ciò che viene empiricamente rilevato. L’accumularsi di anomalie, ossia di casi che risultano in conflitto con il paradigma dominante o che in questo non ricevono spiegazione, porta a una crescente insoddisfazione per il paradigma stesso e rende vieppiù plausibile il suo abbandono a favore di un quadro generale di riferimento più produttivo.
6. Riepilogo
Dopo aver preso in considerazione alcune argomentazioni epistemologiche generali, possiamo ora riportarci alla domanda iniziale: che cosa contraddistingue la psicologia scientifica? Abbiamo rilevato che questa disciplina non si differenzia rispetto alla precedente indagine sulla mente per il fatto che si interessa di realtà da quest’ultima ignorate, ma per il particolare modo con studia tale realtà. Questo modo si caratterizza per un sistematico – e non quindi occasionale, come poteva avvenire nella psicologia filosofica – rimando a dati empirici quale giustificazione delle affermazioni compiute. Tale rimando, tuttavia, è ben lontano dall’essere, come abbiamo visto, la semplice ostensione di qualcosa che accade nel mondo, un puro indicare fenomeni o eventi che qualsiasi osservatore onesto e con un apparato percettivo regolarmente funzionante non potrebbe fare a meno di riconoscere. La base empirica della scienza non appare consistere di dati “neutri”, che si impongono di per sé. Questi dati, pur dipendendo da caratteristiche intrinseche della realtà esterna, sono in parte “modellati” sulla base degli assunti da cui il ricercatore prende le mosse.
Il “che cosa” di cui si interessa una disciplina scientifica dipende quindi dal particolare punto di vista che viene adottato al riguardo. Tale punto di vista risente innanzi tutto dagli assunti generali che il ricercatore condivide circa la natura del proprio oggetto di studio. Tali assunti, variamente denominabili (presupposti, sfondi, visioni del mondo, paradigmi, ecc.), fanno riferimento a convinzioni “ontologiche” profonde, magari condivise da un’intera cultura o epoca, a credenze filosofiche, religiose o ideologiche, a particolari sensibilità di tipo etico, sociale, estetico o idiosincrasie personali. Esse influenzano lo scienziato attraverso il clima culturale complessivo dell’ambiente in cui questo opera, la formazione da questi ricevuta, le occasioni di apprendimento e gli incontri personali (per quanto riguarda la disciplina che qui ci interessa, Dilthey sosteneva che ogni psicologia nasce dall’esperienza di vita del ricercatore e perciò incorpora sempre una visione della vita e del mondo), le sollecitazioni provenienti dal mondo sociale o dalla tecnologia, o, più banalmente, la disponibilità di strumenti, il successo di certe “mode”.
Gli assunti generali portano a scegliere particolari strategie di indagine e queste ultime dànno una particolare forma a ciò che viene indagato. In questo senso si può dire con Agazzi (1976) che il metodo istituisce l’oggetto di una scienza. Nel mondo esistono delle cose le quali si prestano ad essere considerate da differenti punti di vista. Il particolare metodo con cui mi metto a considerare una cosa “ritaglia” dentro questa un particolare oggetto, poiché seleziona entro la cosa alcune proprietà, enfatizza certi aspetti, stabilisce certe relazioni. Una volta così costituitosi l’oggetto, per esso diventeranno pertinenti certe questioni anziché altre, rilevanti certi problemi e non altri; il metodo stabilisce quindi ciò di cui si può parlare in relazione a quella particolare realtà. Le cose del mondo sono quindi potenziali “fasci di oggetti” e talvolta la nascita di una nuova disciplina o, all’interno della medesima disciplina, di una nuova scuola dipende appunto dal fatto che in relazione alla stessa cosa viene adottato un nuovo punto di vista. A monte di qualunque indagine scientifica vi è quindi una scelta o condivisione implicita che definisce gli obiettivi e i metodi dell’indagine stessa. Tale scelta o condivisione è in sé infalsificabile, poiché non deriva dall’indagine empirica ma ad essa preesiste e la istituisce, anche se da tale sfondo si possono derivare ipotesi che possono essere sottoposte al vaglio del controllo empirico.
In conclusione, di una stessa cosa possono occuparsi discipline differenti perché queste vi “vedono dentro” oggetti diversi essendo diversi i punti di vista che vengono adottati. Ciò giustificherebbe anche il pluralismo teorico riscontrabile in alcune discipline, tra cui la psicologia. Le varie scuole si differenzierebbero appunto perché partono da diversi punti di vista e quindi vengono a prendere in esame oggetti diversi, tra loro incommensurabili. Non avrebbe così senso chiedersi se abbia ragione o sia preferibile la scuola x o y, perché in realtà le due scuole si interessano di oggetti differenti. Per quanto concerne più specificamente la psicologia, secondo Civita (1993) la mente è “polivalente”, nel senso che permette di essere descritta e modellizzata a partire da vari punti di vista, anche tra loro incompatibili. Ogni modello, tuttavia, esclude o ridimensiona gli altri, in quanto l’accentuazione o il privilegiamento di certi aspetti della mente comporta la negazione di altri aspetti. Ogni scelta non esaurisce però la totalità delle possibili caratteristiche della mente. “La mente può essere conosciuta in molti modi, perché conoscere la mente significa organizzarla o riorganizzarla; e l’organizzazione della mente non è sottoposta a nessuna legge assoluta, ma dipende da scelte e da operazioni fondazionali” (Civita, 1993, p.181). Una scelta fondazionale prestruttura il campo delle possibili direzioni di indagine che sarà successivamente possibile compiere nell’ambito di quel determinato modello di mente.
Non può pertanto essere l’acquisizione di dati empirici a fornire maggior peso a un modello anziché a un altro, poiché il significato stesso dei dati, come si è visto, dipende dalla prospettiva a partire dalla quale essi vengono considerati. Ciò tuttavia non comporta, come alcuni invece sostengono, che non esistano dei criteri, esterni alla costruzione dei modelli della mente, che permettano di stabilire quali di questi sia quello più adeguato. Né questi criteri possono tutt’al più rispondere a esigenze di tipo operativo e applicativo, ossia in relazione alla possibilità di perseguire gli obiettivi per i quali il modello è stato istituito. La natura intrinseca della cosa, per quanto inaccessibile, rende certe prospettive più o meno adeguate alla sua indagine, poiché i punti di vista che vengono adottati possono essere più o meno rispettosi delle caratteristiche proprie della realtà studiata, caratteristiche che possono essere evidenziate, per esempio, da un’analisi puramente fenomenologica della mente. E del resto, anche chi difende l’assoluta incommensurabilità dei modelli giunge comunque poi a muovere critiche ad alcuni di essi – ad esempio a quelli biologistici o computazionali – in quanto comporterebbero uno “snaturamento” della mente. Ma su che base si è argomenta contro la loro adeguatezza sostenendo che essi non colgono i veri aspetti “mentali” delle funzioni psichiche indagate? Verosimilmente perché si è fatto riferimento a una concezione della mente – in cui, per esempio, non vi sono questioni di energia o di calcoli inconsci – sì posta a un diverso livello rispetto ai modelli scientifici ma non per questo sottratta a ogni forma di valutazione che non sia un bilancio puramente strumentale delle opportunità euristiche ed applicative che essa dischiude.
L’adozione di un particolare punto di vista sulla realtà, e conseguentemente di particolari metodologie di ricerca, porta, o dovrebbe portare, con sé anche la dichiarazione di quali siano i criteri che, entro la prospettiva che si è prescelta, presiedono alla valutazione delle affermazioni. Nel caso della scienza tali criteri, oltre a implicare il rispetto di vincoli formali quali quelli della logica, devono includere, come si è detto, il riferimento a dati di natura percettiva. Occorre cioè che essi indichino quale genere di eventi empiricamente rilevabili dovranno portare ad accettare o rifiutare le affermazioni che vengono compiute. Queste indicazioni dovrebbero essere formulate in modo tale da permettere a qualunque osservatore, posto di fronte a un certo evento, si compiere i medesimi rilievi compiuti da altri osservatori. Affinché ciò avvenga occorre che tali criteri siano formulati in modo univoco e che univoche siano le descrizioni delle procedure operative che i ricercatori devono seguire per rapportare i propri asserti agli elementi empirici che si pretende li sostengano. In ciò risiede l’ “oggettività” della scienza: nel fatto che, una volta definito l’oggetto di indagine e posti i criteri metodologici per il suo studio, vi sia la possibilità di trovare un accordo intersoggettivo circa la veridicità o falsità di quanto si va sostenendo (Agazzi, 1976).
Il discorso scientifico ha quindi in sé un aspetto di contingenza e uno di necessità. La contingenza deriva dal fatto che vi è libertà nella scelta del punto di vista da adottare a riguardo della cosa di cui ci si intende interessare e nei presupposti che si tratta di condividere per dare senso a tale punto di vista e renderlo plausibile. La necessità consiste nel fatto che, una volta dichiarato il punto di vista da cui ci si vuole porre e registratosi l’accordo dei ricercatori al riguardo, essi, dovendo attenersi alle prescrizioni metodologiche che da tale punto di vista conseguono, dovranno giungere alle medesime conclusioni in quanto la natura, benché possa mostrarsi in aspetti diversi secondo la prospettiva che si adotta, è pur sempre la medesima per ognuno e ciò che è in essa inscritto deve emergere, seppur assumendo il “colore” del filtro attraverso cui è guardata, univocamente per ogni ricercatore.
7. Indicazioni Bibliografiche
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