
- Articoli di Psicologia giuridica
- da interattivamente
- 2 Agosto 2015
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Transizioni familiari. Transessualismo, genitorialità e tutela del minore
Simona Luciani
(psicologa – psicoterapeuta)
Cercherò di addomesticare il disordine agganciandolo all’ordine, ampliando la prospettiva, eppure mi godrò la libertà di una prospettiva sfuggente, in cui non c’è finalità di sguardo, in cui nulla è totalmente chiaro, e domani un nuovo percorso darà un nuovo percorso.
A.R. Ammons,«Carson’s Inlet»
Introduzione
La letteratura scientifica che si occupa delle diverse forme di genitorialità, tra cui quella delle persone transessuali, rimane ancora povera e circoscritta. Nel panorama italiano, in particolare, non esistono studi centrati sul ruolo genitoriale, inteso come repertorio di funzioni e competenze suscettibile di assumere una specifica configurazione a prescindere dal genere sessuale di appartenenza. Aldilà delle concessioni fatte ad una maggiore interscambiabilità dei ruoli e ad una più elastica suddivisione delle mansioni di cura ed accudimento dei figli, viene infatti registrata una forte resistenza culturale all’idea che il ruolo materno possa essere incarnato da una persona di sesso maschile e viceversa. Nella medesima logica, sebbene la famiglia non costituisca una realtà «naturalmente» data, quanto una realtà socialmente negoziata e convenuta, il modello familiare storicamente affermatosi come l’unico e legittimo modo di fare famiglia è quello fondato sull’unione tra uomo e donna.
Ciò premesso, gli studi effettuati nell’ambito delle scienze sociali[1] hanno ampiamente attestato come il tessuto sociale sia in grado di ospitare realtà familiari plurime ed eterogenee. In quest’ottica, approfondire lo studio delle famiglie in cui uno dei due genitori viva sulla propria pelle le suggestioni o le perturbazioni di un’identità postmoderna rappresenta al tempo stesso una sfida teorico-epistemologica ed una piattaforma concettuale a partire dalla quale promuovere una cultura delle differenze e dell’integrazione. Non per niente, il genere costituisce una delle dimensioni più emblematiche del mutamento sociale in corso, così come uno degli temi più controversi da affrontare con rigore scientifico, senza rischiare di scivolare su piani ideologici o di rivendicazione sociale. Come noto, determinati argomenti hanno infatti la capacità di suscitare reazioni di consenso o di dissenso a prescindere dal loro aspetto contenutistico: reazioni che non sembrano essere legate a problemi di natura conoscitiva, quanto alla difficoltà nell’inglobare costrutti che potrebbero mettere in discussione alcuni dei principi fondanti delle società occidentali. La stessa posizione di chiusura assunta da una larga fetta della comunità scientifica denuncia un approccio normativo e moralmente predisposto, molto spesso inconsapevole dei repertori di senso comune da cui è pervaso o delle esigenze di potere da cui è governato.
Come effetto di questo atteggiamento di refrattarietà, una coltre di silenzio avvolge le riflessioni sulle metamorfosi che hanno investito le identità di genere nelle società contemporanee e sui corrispondenti effetti in termini di processi di costruzione e di ridefinizione identitaria, di revisione delle relazioni tra donne e uomini, di attuazione di nuove modalità di convivenza, di trasformazione delle esperienze di paternità e maternità (Ruspini, 2005). Per contro, un approccio di ricerca che intenda rimanere rigorosamente aderente alla natura dei fenomeni indagati dovrebbe creare le condizioni affinché le conoscenze maturate nell’alveo delle scienze sociali possano contribuire ad epurare il discorso scientifico ed il senso comune da aspetti moraleggianti e di controllo sociale, passibili di trasformare quanto appare atipico ed inconsueto in un’espressione di psicopatologia che necessita di un inquadramento diagnostico e di un trattamento sanitario. Troppo frequentemente ed infondatamente, le persone transessuali (al pari delle persone omosessuali e bisessuali) sono state infatti ritratte come persone affette da uno specifico «disturbo mentale», inadeguate a costruire relazioni di coppia e incapaci di conservare legami familiari stabili: immagine stereotipica che, anziché rendere giustizia a quanto accade nelle quotidiane interazioni tra gli individui, sembra rispondere all’esigenza di insabbiare le trasformazioni simboliche avvenute nelle società postmoderne, di oscurare i riverberi di tali mutamenti sulle dinamiche e le relazioni tra i generi, di scongiurare il senso di incertezza e disorientamento prodotto dalla crisi dei valori storicamente sedimentati.
A fronte delle criticità sopra rilevate, il presente contributo intende rappresentare un primo passo nella direzione dell’apertura al dialogo e al confronto scientifico rispetto ad un terreno impervio e scivoloso quale quello della genitorialità, inquadrata all’interno di contesti che restano solitamente esclusi dalle trattazioni e dalle pubblicazioni concernenti il transessualismo. Lo scopo è quello di presentare la questione nelle sue diverse angolazioni e sfaccettature, soffermando la riflessione sul punto di snodo che vede intrecciarsi le problematiche annesse alle controversie giurisprudenziali del panorama nazionale ed internazionale, le prassi che sostanziano l’attuazione delle disposizioni di legge da parte degli apparati istituzionali ed assistenziali, le rivendicazioni e le proposte avanzate dalle associazioni GLBT, gli scenari della quotidianità in cui albergano le esperienze di vita di uomini e donne impegnati nella gestione di un’identità sempre più precaria e cangiante, le trasformazioni storiche e culturali che hanno contribuito a plasmare i «discorsi» scientifici e di senso comune su quell’artefatto sociale che chiamiamo «famiglia».
La cornice normativa attualmente vigente in Italia
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Transessualismo ed esercizio della genitorialità in base alle correnti disposizioni di legge
Prima di entrare nel vivo delle questioni concernenti la famiglia e l’esercizio della genitorialità, riteniamo opportuno inserire la presente trattazione nella più ampia cornice giuridico-legislativa che regola il rapporto tra genitori e figli, con particolare riferimento alle situazioni in cui un padre o una madre transessuale decida di portare a termine il percorso di transizione. A questo scopo, appare quanto mai utile gettare un rapido sguardo all’assetto legislativo dei principali Stati europei, al fine di individuare le linee di continuità o discontinuità esistenti tra i vari orientamenti giurisprudenziali, specialmente per ciò che concerne le disposizioni normative e le modalità applicative previste dalla legge 164/82 vigente nel nostro Paese.
Volendo delineare un’agile panoramica retrospettiva, si può ad esempio notare come l’Italia compaia tra i primi Paesi europei ad aver legiferato in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, preceduta solo dalla legge svedese del 1972 e da quella tedesca del 1980. Maggiori sono le somiglianze tra la normativa italiana e quella svedese, che consente di ottenere il riconoscimento di un’identità di genere diversa da quella anagrafica a quanti presentino ben determinati requisiti, tra cui il fatto di aver ricevuto una diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere, di non aver contratto matrimonio, di poter certificare la propria sterilità e la riuscita dell’intervento di riconversione chirurgica. Decisamente più flessibile è il sistema in vigore in Germania, che consente di approdare a due gradi di trasformazione: uno revocabile, definito come «piccola soluzione»; uno definitivo, noto come «grande soluzione». La «piccola soluzione» – applicata anche in Olanda e in Austria – permette di conseguire la rettifica anagrafica del nome, senza dover necessariamente modificare la determinazione sessuale assegnata alla nascita ed il correlato status giuridico. Degno di nota è il fatto che, in base a quanto sancito dall’art. 11 della legge sul transessualismo, l’unione coniugale e i rapporti ad essa assimilati non siano suscettibili di cambiamento. Congiuntamente, l’art. 15 del medesimo testo di legge stabilisce che la variazione anagrafica del nome non debba esercitare alcun tipo di influenza sui rapporti giuridici che intercorrono tra genitori e figli.
Sulla scia di quanto avvenuto in altri Paesi europei, anche il Regno Unito ha recentemente fatto propri i dettami espressi dagli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, in relazione ai quali il riconoscimento giuridico dell’identità di genere sentita come propria non è rigorosamente vincolato all’intervento di rettificazione chirurgica. Tale orientamento – invalso a seguito della condanna della Corte Europea verso l’originario divieto di modificare lo stato civile di una persona transessuale, anche nel caso in cui avesse effettuato l’intervento di riconversione – ha portato all’introduzione del Gender Recognition Act del 2004, che consente di ottenere la rettifica dei dati anagrafici indipendentemente dall’effettuazione o meno dell’operazione. L’adozione del provvedimento ha altresì contribuito a semplificare la gestione del rapporto tra genitori e figli, in quanto nel Regno Unito – al pari della Germania e di tutti quei Paesi in cui sono ammesse le unioni civili tra persone dello stesso sesso – lo scioglimento del matrimonio non annulla la possibilità di godere di diritti civili e di disposizioni analoghe a quelle previste dal codice civile che regola l’istituzione coniugale, compreso il diritto all’esercizio della genitorialità.
Nella medesima direzione si è mossa la Spagna di Zapatero, che il primo marzo del 2007 ha approvato la legge che autorizza la modifica dell’indicazione del nome e del sesso di appartenenza nei registri anagrafici, anche in assenza dell’intervento chirurgico di riassegnazione. Il cambiamento del genere sessuale e del nome non ha effetti sulla titolarità dei diritti e delle obbligazioni giuridiche appartenenti alla persona precedentemente all’iscrizione della variazione nel registro di stato civile. Ed ancora, il cambio di sesso non fa automaticamente decadere il vincolo coniugale, dal momento che la legge 13/2005 varata dal Parlamento spagnolo in data 30 giugno 2005 ha apportato significative variazioni al diritto di famiglia, estendendo la possibilità di contrarre il matrimonio civile anche alle coppie omosessuali.
Per contro, in Francia la questione resta ancora particolarmente caotica ed intricata, non essendo prevista una specifica legislazione atta a regolamentare l’iter di transizione, fatta eccezione per una serie di consuetudini giuridiche tendenzialmente favorevoli alla rettificazione dell’attribuzione di sesso. Ciò fermo restando, nel momento in cui il cambiamento di sesso viene riconosciuto a livello legale, il matrimonio eventualmente preesistente viene sciolto per dare avvio ad un regime di Pacs (Patto civile di solidarietà).
Veniamo, infine, all’Italia. Durante la scorsa legislatura, sono state avanzate diverse proposte di legge in tema di rettifica anagrafica a favore delle persone transessuali e transgender (2939/2002, 2990/2002, 3031/2002), al fine di omologare il nome riportato sui documenti al genere sessuale avvertito come proprio. Sorprendentemente, nessuna delle tre proposte sopra citate ha affrontato – neppure in termini generici e tangenziali – la questione della transgenitorialità. Per quanto riguarda l’attuale legislatura, alla Camera giace un progetto di legge a firma radicale concernente la richiesta di revisione della legge 164/82, finalizzata ad allineare il nostro Paese con le direttive della maggior parte degli Stati europei. Anche in questo caso, non viene fatto il benché minimo accenno al tema della famiglia e della genitorialità. Non da ultimo, è a tutt’oggi in gestazione un ulteriore progetto di legge promosso dall’onorevole Vladimir Luxuria: rispetto a quella che dovrebbe essere la versione definitiva del testo di legge[2], l’unico accenno alla genitorialità riguarda il fatto che non costituisca un ostacolo all’avvio della transizione.
In un vuoto di proposte e di rivendicazioni politiche, l’amara conclusione è che la legislazione italiana continua ad accumulare un consistente ritardo storico e culturale nei confronti delle altre legislazioni europee, fino a rimanere impantanata nelle secche applicative della legge 164/82. In virtù di quanto attualmente previsto, una volta ratificata l’istanza di rettificazione di sesso presso il tribunale di competenza, marito e moglie vengono infatti esautorati da ogni diritto di scelta riguardo la possibilità di conservare o meno il vincolo coniugale[3]. Contestualmente, il giudice che pronuncia la sentenza di divorzio ha la facoltà di esprimersi in merito all’opportunità che la persona transessuale eserciti la potestà genitoriale sul figlio, soprattutto nei casi in cui vengano ravvisati elementi suggestivi di un rischio evolutivo. Sospinto da questo delicata incombenza, in vista della realizzazione del miglior interesse del minore, il magistrato finisce spesso con il pronunciarsi in base a due criteri impliciti: a) il minore non è in grado di capire, di comprendere e di seguire il cambiamento del genitore; b) il genitore transessuale non è capace di assolvere il proprio ruolo materno o paterno (Maltese, 2002). Presupposti, questi ultimi, che prestano il fianco a non poche critiche e perplessità, dal momento che non esistono tangibili riprove a sostegno dell’idea che le trasformazioni dell’aspetto anatomico e del genere biologicamente assegnato possano influire sulla capacità di esercitare le proprie funzioni genitoriali. Altrettanto arbitraria e destituita di fondamento è l’opinione che i figli delle persone transessuali tendano a sviluppare problematiche d’identità o di orientamento sessuale, per lo meno non in percentuali superiori a quelle dei bambini cresciuti all’interno di famiglie tradizionali (Green, 1978). Non da meno, la valutazione effettuata dalla maggioranza dei giudici italiani poggia sul confronto con il modello genitoriale tramandato dalla tradizione, suscettibile di portarli ad elaborare la discutibile congettura che l’interesse del minore e quello del genitore transessuale siano necessariamente confliggenti, tanto da rendere indispensabile la sospensione di qualsiasi contatto[4] (Maltese, 2002).
La situazione è resa ancor più critica e controversa dal fatto che una persona che abbia completato l’iter di adeguamento – senza, tuttavia, ricorrere all’intervento di riconversione – può continuare ad esercitare la propria genitorialità all’interno di un contesto coniugale e familiare sostanzialmente immutato a livello giuridico. Viceversa, una persona che abbia ultimato il percorso di rettificazione sia a livello chirurgico che anagrafico, nella maggioranza dei casi si vede contestare il diritto alla maternità o alla paternità. Salvo rare eccezioni, il cambiamento dell’identità di genere viene pertanto ritenuto un limite all’esercizio di un’adeguata genitorialità, in quanto considerato pregiudizievole per l’integrità psicofisica e morale del minore. Il che rappresenta spesso una petizione di principio, non opportunamente avallata da pezze d’appoggio ed elementi dimostrativi. Senza dubbio, la conclusione dell’iter di rettificazione e lo scioglimento del vincolo coniugale dei genitori costituiscono due esperienze che innescano un vasto processo di riorganizzazione familiare, passibile di ingenerare fenomeni di disadattamento sociale, psicosessuale e scolastico nei bambini o negli adolescenti. Eppure, a ben guardare, il percorso di transizione – alla stregua di altri eventi che possono incidere sulla struttura e sulle dinamiche del nucleo familiare – costituisce un processo che cambia le forme delle interazioni familiari, senza necessariamente sopprimerle. L’esito di tale processo appare strettamente connesso alla funzionalità o alla disfunzionalità dei modelli interattivi preesistenti e successivi alla scelta di intraprendere la transizione stessa.
Altri scogli vengono incontrati sul fronte dell’adozione nazionale ed internazionale. Vero è che – in linea teorica – la richiesta inoltrata da un genitore che abbia concluso l’iter di rettificazione non ostacola l’adozione. Al pari di qualsiasi persona che faccia istanza in questo senso, la sua idoneità genitoriale dovrebbe essere infatti valutata in base a criteri standard unanimemente riconosciuti ed applicati[5]. Ciò nonostante – analogamente a quanto accade alle persone omosessuali – la richiesta avanzata da una coppia regolarmente coniugata, in cui uno dei componenti sia transessuale viene normalmente rigettata. Il rifiuto viene giustificato adducendo l’assenza dei criteri che soddisfano la legge 184/83 (legge che disciplina l’adozione e l’affidamento) e le successive modifiche apportate dalla legge 149/01[6], in virtù delle quali il minore ha diritto a crescere all’interno di un contesto familiare che ne possa accompagnarne i percorsi di sviluppo, assolvendo i corrispondenti compiti educativi ed assumendo precisi doveri genitoriali. In risposta a tali restrizioni e limitazioni, le associazioni GLBT e i movimenti per l’affermazione dell’identità di genere stanno portando avanti la lotta civile per garantire l’uguaglianza dei diritti a livello giuridico, anche rispetto alla possibilità di estendere l’adozione alle coppie che presentano i criteri indicati dal Legislatore[7], e che come tali sono in grado di assicurare la stabilità del matrimonio e la presenza di figure genitoriali polarizzate sul versante maschile-femminile.
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La tutela del minore: transessualismo come fattore di «rischio» in età evolutiva?
Di fronte alla presenza di un genitore transessuale, vengono spesso sollevati timori relativi al regolare sviluppo psicofisico del figlio. Questa posizione prudenziale da una parte rappresenta una necessaria forma di tutela giuridica nei confronti di soggetti socialmente deboli quali i bambini, dall’altra rischia di trasformarsi in un eccesso di garantismo che scatta ogni qual volta l’esperto (giudice, psicologo, assistente sociale) incontra configurazioni relazionali non conformi al modello familiare tradizionale. Come già sottolineato, la fondatezza di certe preoccupazioni dovrebbe essere comunque vagliata rispetto a ciascuna singola situazione, piuttosto che essere agganciata a petizioni di principio, non suffragate da adeguati riscontri empirici. Gli unici dati presenti nell’ambito della psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento si limitano semplicemente ad indicare come molte delle condizioni di malessere siano legate allo strutturarsi di problemi familiari che incidono sul funzionamento della principale agenzia di socializzazione del bambino (Bruner, 1983). In questa prospettiva, la presenza di un genitore transessuale non costituisce un fattore di «rischio evolutivo»[8] aprioristico ed indiscriminato, ma soltanto nella misura in cui è suscettibile di agire in maniera potente e pervasiva sulle dinamiche interattive e sull’assetto normativo del sistema familiare, imponendo necessari aggiustamenti, al fine di preservare l’equilibrio del sistema stesso.
Per meglio comprendere quale sia il focus della questione si pensi ad esempio al potenziale rischio insito nel celare al figlio le implicazioni annesse all’iter di transizione, esponendolo ad occultamenti e dissimulazioni rispetto alle problematiche che coinvolgono il genitore transessuale. Altrettanto deleterie sarebbero le circostanze in cui lo stesso si allontana affettivamente dal bambino. Spesso e volentieri, le traversie incontrate lungo il percorso di adeguamento interferiscono con l’assunzione di un adeguato ruolo educativo. Non sono rari i casi in cui il genitore, provato dalle cure ormonali e dalle difficoltà gestionali (lavorative, sociali, familiari, ecc.), si mostrerebbe maggiormente irritabile ed incline a perdere la pazienza, emotivamente assente o distante, incapace di occuparsi del figlio o dei suoi problemi. In altri frangenti, tenderebbe ad essere meno influente a livello disciplinare, nel tentativo di esorcizzare il senso di colpa da cui viene sopraffatto. La sua autorevolezza verrebbe minata, al pari della capacità di mantenere un dialogo con il minore, essendo difficile fornire una spiegazione soddisfacente ed esaustiva su quanto sta accadendo.
Il tutto potrebbe essere acuito dalla presenza di una massiccia conflittualità di coppia, in particolare laddove il partner non riesca ad accettare l’idea della transizione. Al crollo delle aspettative riposte nel rapporto coniugale, si affiancherebbero sentimenti di tradimento, problemi di attrazione sessuale e difficoltà nel gestire l’immagine sociale (Luciani, Inghilleri, Fasola, 2007). Questo, senza contare che determinati aspetti della persona transessuale (stile di vita, opinioni e convinzioni, visione del mondo, ecc.), accettati e tollerati prima dell’avvio della riconversione, con l’andare del tempo possono diventare sempre più faticosi da sostenere. Se poi il marito o la moglie transessuale inizia ad assumere atteggiamenti contrari a quelli ritenuti appropriati e condivisibili, l’altro inizia a sviluppare una crescente sensazione di intolleranza che va ad accelerare il processo di dissoluzione della famiglia. Giorno dopo giorno, le difficoltà coniugali riverberano sul sistema familiare, che da contesto esistenziale da cui è possibile trarre forza e soddisfazione, si trasforma in un teatro di schermaglie relazionali, di sofferenza e di episodi drammatici.
Spesso e volentieri, l’unica soluzione in grado di mettere fine agli attriti e alle conflittualità è quella del divorzio. D’altra parte, anche le decisioni riguardanti l’affidamento dei minori possono diventare particolarmente ostili ed avverse, vista la complessità che contraddistingue la contesa genitoriale rispetto al futuro dei figli. Non di rado, i minori finiscono con l’essere invischiati nel caotico contesto in cui padre e madre si trovano ad interagire. Ne discende un loro coinvolgimento strumentale all’interno di un gioco relazionale emotivamente disfunzionale, dimentico dei loro bisogni ed orientato a mantenere una relazione di coppia, sia pure in condizioni di crisi (Vella, Solfaroli Camillocci 1992).
In definitiva – seppur diversi nelle forme e nei contenuti – gli scenari finora descritti sono connotati dai medesimi processi riscontrabili nelle situazioni in cui uno o entrambi i genitori vanno incontro a problemi personali o relazionali di vario tipo, non riuscendo a mantenerli entro l’area in cui si sono originariamente sviluppati. Ciò significa che la questione cruciale rispetto alla salvaguardia del benessere del minore non risiede nel transessualismo o meno di un genitore, ma nel modo in cui tale fenomeno interagisce con la storia, le dinamiche familiari e lo stigma sociale che ancora oggi accompagna alcune trasformazioni personali e familiari. Come verrà meglio chiarito in seguito, l’adeguamento del sesso biologico a quello psichico non costituisce un evento che ratifica la «dissoluzione della famiglia». Piuttosto che un punto d’arrivo, costituisce il punto di partenza di una nuova fase evolutiva, che segna l’avvio di un processo di riorganizzazione del sistema relazionale e di ridefinizione dei ruoli, delle interazioni e delle funzioni familiari. L’adeguato sviluppo psicologico dei figli dipende dalla sua riuscita, ovvero dall’efficace negoziazione di nuovi equilibri strutturali, funzionali ed interattivi.
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L’interesse del minore: dalla valutazione del «rischio evolutivo» alla promozione dei fattori protettivi
Ancora a proposito di condizioni di «rischio evolutivo», va sottolineato come una svolta teorica storicamente significativa sia coincisa con il riconoscimento delle specificità dell’età evolutiva in relazione alle diverse fasi della crescita e ai significati delle esigenze espresse dal minore rispetto ai suoi compiti di sviluppo. L’innovazione più determinante e significativa ha comportato la valorizzazione delle competenze e delle risorse annesse al mondo cognitivo-emotivo del minore, che hanno assunto una posizione preponderante rispetto agli aspetti deficitari o problematici. In virtù di questo radicale ribaltamento di prospettiva, la protezione dai possibili «incidenti di percorso» che possono costellare la storia di vita di un bambino inserito in un contesto familiare sui generis viene sostanziata da interventi diretti a potenziare le sue competenze sociali e relazionali, accompagnandolo nell’affrontare situazioni complesse o potenzialmente discrepanti rispetto ai suoi bisogni di crescita. In questa direzione va letta l’applicazione dei recenti orientamenti della legislazione internazionale, come la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullofirmata a New York il 20 novembre 1989[9] e la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996. In particolare, vanno evidenziati l’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite e l’articolo 3 della Convenzione d’Europa a Strasburgo, di seguiti riportati in forma integrale:
art. 2: 1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza. 2. Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.
art. 3: Nei procedimenti che lo riguardano dinanzi a un’autorità giudiziaria, al minore che è considerato dal diritto interno come avente una capacità di discernimento vengono riconosciuti i seguenti diritti, di cui egli stesso può chiedere di beneficiare:
a) ricevere ogni informazione pertinente;
b) essere consultato ed esprimere la propria opinione;
c) essere informato delle eventuali conseguenze che tale opinione comporterebbe nella pratica e delle eventuali conseguenze di qualunque decisione.
Calato nell’ambito dei nuclei familiari in cui sia presente un genitore transessuale, il contenuto dei due articoli da una parte comporta la necessità di non discriminare aprioristicamente il bambino o la sua famiglia in nome di una mera distanza da quanto viene ritenuto «normale», dall’altra garantisce al minore il diritto di agire sul proprio destino, attraverso il riconoscimento della sua competenza comunicativa, quale aspetto vincolante che può contribuire a sviluppare una sua autonomia ed una sua attiva partecipazione alle scelte che lo riguardano (Magno, 2001). In buona sostanza, la posizione che l’attuale legislazione internazionale assegna ai minori – qualsiasi sia la loro età – rappresenta uno strumento privilegiato per renderli protagonisti dei loro specifici processi di socializzazione, anche all’interno di contesti familiari problematici o difficili, veicolando una grande potenzialità di differenziazione e di arricchimento degli itinerari di crescita e di sviluppo psico-sociale.
Il cambiamento di prospettiva che ha investito il concetto di interesse del minore ha avuto potenti ricadute operative. Dagli interventi improntati alla rimozione delle cause del disagio, si infatti è passati ai programmi di promozione del benessere, spostando il focus dell’attenzione dalle condizioni di debolezza alle risorse individuali e contestuali, quali strumenti privilegiati di gestione del rischio evolutivo. Ciò non implica negare che le condizioni di vita all’interno della famiglia, accanto ad altri fattori legati al contesto sociale allargato, possono incidere sullo sviluppo del minore, generando discrasie e discontinuità nella capacità di disporre delle competenze relazionali adeguate a proteggersi da un eventuale disagio. Fermo restando un atteggiamento cautelativo, la valutazione delle condizioni di rischio a cui è esposto il minore va tuttavia contestualizzata rispetto a ciascun singolo caso, prendendo in esame le sue risorse e la sua capacità di far fronte alle difficoltà. In tal senso, situazioni di potenziale rischio – come ad esempio quelle in cui un genitore stia affrontando i disagi identitari annessi a ciò che viene definito «disforia» di genere o al percorso di riconversione – non escludono la possibilità di superare i problemi eventualmente presenti attraverso il potenziamento delle competenze del minore, sia sul piano individuale che sociale. Il che chiama in causa l’individuazione dei fattori protettivi ed in particolar modo il concetto di resilienza, ovvero la capacità del minore di andare oltre le esperienze traumatiche (Rutter, 1987; 1990) e di gestire in maniera funzionale le situazioni critiche. Il termine designa infatti un processo di adattamento, attraverso il quale il bambino mette in campo tutta una serie di strategie che gli consentono di affrontare con successo le circostanze che potrebbero interferire con il suo sviluppo cognitivo, emozionale e relazionale.
La valutazione dell’idoneità genitoriale e i criteri giudiziari nell’affidamento della prole
Come precedentemente chiarito, nel caso in cui la persona transessuale ottenga la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, è chiamata a confrontarsi con lo scioglimento del vincolo coniugale, con le questioni annesse all’affidamento dei figli[10] e con la valutazione della sua capacità di salvaguardare il benessere del minore. Questo complesso quadro concettuale ed operativo è reso ancor più intricato dalle modificazioni introdotte dal disegno di legge 3537 riguardante le «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli», approvato dalla Camera dei deputati il 7 luglio 2005. In linea con quanto stabilito dal quarto comma dell’art. 155 c.c[11], ciascuno dei genitori può infatti chiedere l’affidamento condiviso del minore, qualora ne sussistano le condizioni. Per realizzare la finalità indicata dal primo comma[12] dell’art. 155 c.c., il giudice che pronuncia il divorzio dei coniugi valuta prioritariamente la possibilità che il figlio resti affidato ad entrambi i genitori; in alternativa, stabilisce a quale dei due debba essere affidato, determinando i modi e i tempi della sua presenza presso ciascun genitore e fissando la misura in cui essi debbano contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione del figlio. Salvo indicazioni contrarie, la potestà genitoriale può quindi essere esercitata da entrambi i genitori. Qualora lo ritenga necessario, il giudice può tuttavia disporre l’affidamento ad uno solo dei genitori, con provvedimento motivato rispetto al fatto che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.
Detto questo, va precisato come nei contesti caratterizzati da condizioni ritenute pregiudizievoli per la crescita del minore, piuttosto che agire in piena autonomia il giudice ravvisa la necessità di essere coadiuvato da uno o più consulenti contraddistinti da comprovate competenze professionali. In conformità a quanto previsto dall’art. 61 del codice di procedura civile, mediante la formulazione di appositi quesiti, assegna al consulente il compito di espletare una serie di indagini finalizzate alla raccolta di elementi chiarificatori utili ai fini decisionali (De Leo, Malagoli Togliatti, 1990). Nello specifico delle situazioni in cui uno dei due genitori sia transessuale, la consulenza tecnica d’ufficio viene richiesta nei casi in cui i disaccordi coniugali in merito alla rettificazione di sesso e agli annessi effetti sul vincolo matrimoniale siano fonte di tensioni in seno alla coppia genitoriale, al punto da far insorgere aspre conflittualità circa l’affidamento dei figli. In tale frangente, l’esigenza del giudice è di comprendere quale sia la capacità dei genitori di assolvere le funzioni di cura e di protezione del minore, in conformità al principio della salvaguardia dell’«interesse morale e materiale della prole»[13].
Fatte le dovute precisazioni rispetto alla cornice in cui va ad inscriversi l’attività del consulente, andiamo ad esaminare quali sono i criteri che dovrebbero guidare il suo operato laddove venga chiamato a valutare l’adeguatezza dei genitori. Per quanto attiene la qualità dell’accertamento, questo tipo di indagine non dovrebbe essere centrato sulle caratteristiche di personalità riscontrabili a livello individuale (disposizioni temperamentali, struttura di personalità, dinamismi intrapsichici, repertori comportamentali, costellazioni di tratti normali o patologici, ecc.). A differenza di quanto avveniva prima dell’introduzione del nuovo diritto di famiglia – in cui l’esame poteva essere disposto su uno dei due coniugi, quando l’altro ne metteva in dubbio l’equilibrio psichico – l’attuale mandato del consulente dovrebbe esulare dal riscontro di patologie relative al sistema familiare o dalla conformità di ciascun genitore a fantomatici criteri di «normalità». Ciò fermo restando, nella misura in cui si appresti ad assolvere il proprio mandato, il consulente può mettere in campo svariate procedure peritali, in maniera congruente con l’approccio teorico e metodologico privilegiato. Laddove la sua impostazione sia di tipo tradizionale, può ad esempio limitarsi ad effettuare l’analisi individuale del minore e delle figure del suo contesto di vita. Alternativamente, nel caso in cui preferisca allinearsi con i più recenti contribuiti della ricerca scientifica, può attestarsi sull’analisi delle interazioni tra il minore ed il sistema familiare. L’oggetto d’indagine è, in questo caso, costituito dalle dinamiche intergenerazionali e da quei fattori che – all’interno di un tessuto relazionale orientato all’accudimento – possano essere suggestivi della capacità dei genitori di sapersi confrontare con le esigenze del figlio, assumendo ruoli e responsabilità funzionali alla sua crescita affettiva.
In ultima analisi, oggetto di indagine peritale dovrebbero essere il significato e la valenza dei rapporti che coinvolgono il minore e le figure per lui significative. L’uso del condizionale è, però, d’obbligo. Se vengono infatti analizzate le motivazioni a base delle sentenze[14], è facile notare come la scelta in merito all’affidamento dei minori sia spesso frutto dell’applicazione di criteri che prescindono dall’analisi della relazione genitore-figlio e che sono essenzialmente riconducibili a tre diverse dimensioni: a) la personalità del genitore e la sua condotta morale; b) il suo ruolo sociale e le scelte ideologiche; c) l’ambiente di vita ed il contesto relazionale che può offrire al minore[15]. Criteri, questi, dietro ai quali si intravede il filtro delle categorie morali e delle regole sociali avallate dal senso comune, spesso inconsapevolmente condivise da giudici e consulenti.
Più spesso di quanto non voglia o non creda, l’esperto finisce quindi con il dare una risposta vicina a ciò che la gente s’immagina e si aspetta, ricorrendo ad ingenui schemi di attribuzione che collocano «la causa» del malessere dei figli nei valori personali del genitore, nei suoi disorientamenti esistenziali, nelle sue infrazioni morali o nelle sue presunte patologie di personalità (Salvini, 1995; 2002). In tal senso, una delle variabili maggiormente rischiose è rappresentata dal sistema di pregiudizi da cui lo psicologo viene agito senza averne sufficiente consapevolezza: stereotipi di genere che possono inficiare la validità del suo lavoro, traducendosi nell’assunzione di un atteggiamento rigido nei confronti del sistema osservato, nello schieramento a favore di un genitore, nella formulazione di valutazioni che non coincidono con quanto viene indagato, o peggio nell’incapacità di cogliere le potenzialità evolutive che possono emergere dal sistema relazionale (Quadrio, Quadrio, 1995). A fronte di questi rischi, è allora quanto mai opportuno che la valutazione dell’attitudine genitoriale conduca alla formulazione di ipotesi e di obiettivi conoscitivi legati a procedimenti suscettibili di dimostrabilità sotto il profilo logico-argomentativo e delle prove empirico-fattuali.
Transizioni culturali e realtà familiari
La pluralizzazione delle realtà familiari
Parlare di modello familiare in una società in continuo mutamento, costituisce una sfida teorica e metodologica indubbiamente complessa, in quanto i cambiamenti avvenuti a livello psicologico e sociale hanno ingenerato una perturbazione del sistema familiare tradizionale, rendendolo profondamente diverso in fatto di norme, ruoli e stili relazionali (Saraceno, 1998). Come rilevato da recenti sondaggi ISTAT ed EURISPES[16], il panorama italiano è infatti sempre più spesso caratterizzato da fenomeni quali l’aumento dell’instabilità coniugale, delle convivenze e delle nascite al di fuori del matrimonio. D’altra parte, pur essendo presenti in maniera decisamente superiore al passato, tali fenomeni non raggiungono un livello di diffusione equiparabile a quello delle medie europee. La specificità del contesto italiano è, cioè, tale da registrare la persistenza istituzionale del matrimonio e del modello di coppia genitoriale basato sulla complementarietà dei ruoli di genere, in accordo con la convinzione che il minore abbia bisogno di un padre e di una madre per poter crescere in maniera «sana ed equilibrata».
Con la forza del modello familiare tradizionale vengono chiamate a confrontarsi le scienze sociali, sollecitate a rendere ragione della pluralizzazione delle esperienze familiari, con specifico riguardo alle caratteristiche delle relazioni non riconducibili al modello fondato sull’unione eterosessuale e ai contesti familiari che maggiormente risentono dei mutamenti identitari dei suoi membri, come ad esempio quelli in cui vivono persone transessuali. Sulla scia di quanto sta accadendo per gli studi sull’omosessualità (Bertone, 2005; Trappolin, 2004; Danna, 1998; Ruspini, 2003; 2005), è allora quanto mai opportuno allargare le indagini alle «pratiche familiari» (Morgan, 1999)[17] calate nei contesti della quotidianità, al fine di cogliere in che modo le differenze di genere vengano concretamente esperite nell’attuale momento storico e in che termini si riflettano sul rapporto tra genitori e figli.
Ciò consentirebbe di comprendere in che modo gli ideali normativi relativi all’essere una famiglia vengano interpretati nella vita di tutti i giorni (Finch, 1989; Silva, Smart, 1999), individuando le annesse percezioni e rappresentazioni simboliche. Considerata la complessità ed il senso di incertezza che permea i ruoli genitoriali non conformi ai modelli precostituiti, gli studi in tema di genitorialità transessuale permetterebbero di esplorare i processi attraverso i quali viene ritagliato il proprio modo di essere madre o padre. Non potendo del tutto attingere alla complementarietà di ruolo culturalmente preordinata – e non potendo evitare i conflitti insiti nell’essere al tempo stesso un padre forte ed affidabile, un compagno complice e comprensivo, una donna femminile e seducente – l’esperienza delle persone transessuali potrebbe aiutare a gettare nuova luce sul modo di interpretare e di rimodellare il ruolo genitoriale. Allo stato attuale, in assenza di dati e riscontri empirici, le ipotesi formulabili sono estremamente disparate: il rapporto tra la genitorialità delle persone transessuali e le rappresentazioni che improntano le relazioni familiari potrebbe oscillare tra il totale sovvertimento ed il sostanziale adeguamento a quelle già sedimentate nel tessuto discorsivo socialmente condiviso. Trattandosi di mere ipotesi di ricerca, la loro pertinenza ed adeguatezza andrebbe, però, vagliata attraverso una più approfondita conoscenza dell’esperienza delle persone transessuali e della valenza conferita alla costruzione delle loro realtà familiari.
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Transizioni concettuali: la famiglia come costruzione sociale
Così come le trasformazioni sociali e culturali avvenute nel corso dei secoli hanno storicamente influito sull’avvicendarsi dei modelli familiari imperanti nel corso delle varie epoche, anche i cambiamenti paradigmatici che hanno investito le scienze sociali hanno potentemente influito sul modo di teorizzare e di studiare la famiglia. Volendo passare rapidamente in rassegna le «transizioni concettuali» più salienti e significative, negli anni Sessanta la famiglia è stata ad esempio inquadrata all’interno di un paradigma modernista[18], in cui lo sforzo conoscitivo è stato guidato dalla fiducia nell’esistenza di una verità ultima, e quindi dall’obiettivo di costruire un sapere oggettivo, che permettesse di formulare previsioni sempre più precise ed accurate rispetto alle relazioni di causa-effetto esistenti tra i fenomeni osservati. L’interesse dei ricercatori è stato pertanto rivolto alla formulazione di leggi universali e all’individuazione di regolarità, tali per cui le manifestazioni psichiche che si discostavano da un modello ideale precostituito andavano necessariamente ricondotte al binomio normale-patologico. All’interno di questo orizzonte teorico ed epistemologico, la famiglia è rimasta un’entità supposta, indagata esclusivamente in virtù del suo grado di corrispondenza alla norma, dei suoi presunti effetti causali sullo sviluppo del minore e degli strumenti più adeguati a diagnosticare la psicopatologia dei suoi membri.
In linea con il mutamento dei fondamenti su cui poggiava la conoscenza, a partire dagli anni Ottanta la famiglia non è stata più concepita come sistema generatore di patologia, ma come contesto in grado di assicurare il «normale» e «adeguato» sviluppo dei suoi membri. A generare tale spostamento di prospettiva hanno contribuito diversi approcci, tra cui quello evolutivo (Hinde, Stevenson-Hinde, 1987) e quello ecologico (Bronfenbrenner, 1979; 1986), che hanno rimarcato la necessità di adottare paradigmi di ricerca orientati all’analisi del sistema familiare, dei processi relazionali e dei fattori di contesto. Parallelamente, la teoria sistemica ha dato vita a due differenti quadri concettuali. Il primo configurava la famiglia come sistema chiuso e puntava l’attenzione sugli scambi interattivo-comunicativi che avvenivano nel «qui ed ora». La Scuola di Palo Alto in particolare (Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974), ha operato al fine di modificare il comportamento osservabile della famiglia, riferendosi ad essa nella sua totalità piuttosto che alle specificità dei singoli componenti. E’ però solo all’interno del secondo quadro concettuale di riferimento – definito come sociologico – che il sistema familiare ha iniziato ad essere concepito come mediatore «aperto» e flessibile, sia in rapporto ai suoi membri costitutivi che al contesto sociale di riferimento.
Nel frattempo, nell’ambito dell’interazionismo e del costruzionismo psico-sociale (Gergen, 1985; McNamee, Gergen, 1994) il paradigma causale è stato definitivamente abbandonato. Il riconoscimento del ruolo dell’osservatore e dell’annessa funzione costruttiva nelle operazioni conoscitive, ha contribuito ad epurare il discorso scientifico dagli elementi di meccanicismo e dall’uso di metafore di tipo causale-lineare, generando profonde revisioni concettuali e metodologiche. Sulla scia delle suggestioni del pensiero postmoderno, la crisi dei modelli neopositivisti nelle scienze umane e sociali ha lasciato emergere paradigmi di ricerca di tipo ermeneutico-interpretativo che hanno portato alla ribalta il problema del significato. Porre il problema del significato come centrale per la ricerca psicologica, così come per la ricerca storica, sociologica ed antropologica (Geertz, 1983) ha implicato privilegiare lo studio del linguaggio, del discorso, dell’argomentazione come fonti di sviluppo e di costruzione di significati condivisi. In quest’ottica, la realtà non viene più considerata indipendente dai contesti, dalle forme di relazione e dalle pratiche conoscitive che la costituiscono, la modificano o la dissolvono. Da Mead a Bateson le proprietà del reale emergono da un sistema di accordi intersoggettivi, di negoziazioni collettive, di artefatti sociali: un mondo popolato di simboli prima che di oggetti, di regole linguistiche e di valori prima che di fatti (Salvini, 1998).
Parallelamente al mutare delle teorie e dei paradigmi di ricerca psico-sociale, il modello teorico dello sviluppo familiare è andato incontro a profondi ripensamenti, fino ad essere pensato come un processo il cui contenuto e la cui configurazione mutano attraverso «microtransizioni», ovvero oscillazioni tra livelli di funzionamento noti e livelli di funzionamento nuovi (Breunlin, 1988; Scabini, Galimberti, 1994). La lettura dei problemi e dei fenomeni riscontrabili a livello familiare è stata effettuata in termini di «oggetto costruito socialmente» e di «impresa congiunta» portata avanti da genitori e figli (Youniss, 1983; Scabini, 1989; Cigoli, 1985; 1993; Sroufe, 1991). Ne segue, che l’aspetto critico di un avvenimento è frutto dell’interazione tra l’evento ed il significato che la famiglia gli attribuisce. A fronte della sua comparsa, le usuali modalità di funzionamento si rivelano inadeguate, tanto da richiedere l’attivazione di procedure di aggiustamento ed adattamento. A loro volta, i processi di transizione implicano momenti di crisi e successive riorganizzazioni, fino al momento in cui la famiglia non riesce a trovare modalità maggiormente adeguate e funzionali alla nuova configurazione che la connota. La capacità di un sistema di ristrutturarsi di fronte agli eventi critici che si presentano è a sua volta connessa al grado di adattabilità nei confronti delle situazioni stressanti, ovvero alla possibilità di rinegoziare ruoli, regole e funzioni interne alla famiglia. A partire da tali presupposti, il transessualismo di un genitore – alla stregua di altri eventi che possono influire sulla vita di una famiglia – anziché essere riduttivamente inquadrato come problema identitario che compete al singolo individuo, è connotabile in qualità di evento critico[19] che coinvolge tutti i membri della famiglia e che mette in discussione l’identità organizzativa del sistema nel suo complesso, in termini di trasformazione dei legami preesistenti (Youniss, 1983) e di rinegoziazione della relazione tra genitori e figli (Grotevant, Cooper, 1986). Il suo superamento si pone come impresa congiunta che comporta la riorganizzazione della vita di coppia, così come un aumento di flessibilità rispetto ai confini familiari, ai ruoli, alle regole e alle corrispondenti modalità comunicative.
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Transizioni conflittuali
Alla luce di quanto finora esplicitato, andiamo ad analizzare che cosa può accadere nel momento in cui la persona transessuale decida di ultimare l’iter di transizione, fino ad inoltrare la richiesta di riconversione chirurgica. In tale frangente, l’assetto coniugale diventa spesso difficile da gestire. Solo il tempo, la flessibilità nel trovare nuovi obiettivi e inediti schemi di interazione consentono di superare il problema, sempre che l’affetto e la comprensione non vengano a mancare. Anche nei casi in cui è possibile superare lo scoglio dell’accettazione, la questione principale non risiede nell’interagire con la persona transessuale nel chiuso delle mura domestiche, quanto nel gestire il rapporto di coppia sul «palcoscenico sociale» (Goffman, 1963; 1971), con il complesso corollario di rimandi e di rispecchiamenti che entrano in gioco nell’interazione faccia a faccia. Spesso e volentieri il tentativo di orchestrare una caotica polifonia di «voci» si rivela fallimentare. Perché si possa giungere ad un soddisfacente compromesso per entrambi i membri, sono quindi necessari aggiustamenti reciproci e raffinate competenze comunicative: padronanza delle regole dei diversi contesti sociali, flessibilità situazionale, capacità simboliche, risorse espressive e interpretative, non disgiunte dagli abiti di ruolo e dai complementari stati emotivi (Luciani, Inghilleri, Fasola, 2007).
Non di rado, il progetto di coppia si arena di fronte alla presenza di bisogni e desideri non condivisi, di modi diversi di interpretare gli eventi e di affrontare l’esistenza. Nella maggioranza dei casi, non è ravvisabile la capacità di gestire la situazione in tutta la sua complessità. Ancor più frequentemente, i problemi presenti a livello coniugale non rimangono confinati entro il contesto relazionale in cui sono nati, finendo con l’estendersi ad altre sfere, compresa quella genitoriale. Inevitabilmente, le tensioni esistenti tra padre e madre investono il minore, rendendolo testimone di una conflittualità manifestata in maniera disfunzionale, attraverso il suo diretto coinvolgimento. Ciascun membro della coppia, nel tentativo di affermare il proprio punto di vista, finisce con l’evidenziare le inadeguatezze dell’altro, quasi come se screditarne la validità affettiva ed educativa costituisse l’unico mezzo attraverso il quale percepirsi capace a livello genitoriale (Dell’Antonio, 1993). L’alto grado di simmetria interattiva crea le condizioni affinché chi viene attaccato, attacchi a sua volta, concorrendo a cronicizzare la crisi. A scanso dei buoni propositi, le dichiarazioni e l’atteggiamento assunto dal genitore non transessuale lasciano trasparire una posizione emotiva di disistima, sfiducia e risentimento nei confronti dell’altro. Nei casi estremi, può addirittura giungere ad esibire un’aperta opposizione all’idea che il figlio conservi contatti con il genitore transessuale, dando avvio ad una campagna denigratoria che assume i connotati della cosiddetta «sindrome di alienazione genitoriale» (Gardner, 1989)[20].
L’instabilità della coalizione con uno dei due genitori, porta il figlio a sviluppare la convinzione di dover sottostare ai bisogni del proprio «alleato». Si tratta di un gioco relazionale pericoloso che incide sulla costruzione del suo senso d’identità, mettendolo nella posizione di dipendere dalle esigenze dell’adulto per ottenere il proprio riconoscimento. Schierandosi, egli diventa l’autore di una scelta dolorosa, che implica il fatto di perdere l’affetto del genitore transessuale. Senza contare che il gioco delle alleanze e delle delazioni incrociate può metterlo in pericolo nel momento in cui i genitori – magari temporaneamente riavvicinatisi in termini comunicativi – gli rinfacciano la sua inaffidabilità e i suoi sotterfugi. Malgrado la pericolosità di certi giochi relazionali, nei genitori non sempre sembra esserci la dovuta consapevolezza del fatto che i contrasti fra gli adulti possono generare nel minore: a) disagio e conflitto; b) sensi di colpa e incapacità di rispondere alle contrastanti richieste che gli vengono rivolte; c) sentimenti di oppositività ed ostilità; d) la tendenza a creare una graduatoria fra vincenti e perdenti; e) l’inclinazione a modulare il proprio comportamento e le proprie richieste in funzione dell’interlocutore, utilizzando le aree di contraddizione che riesce a cogliere, al fine di soddisfare i propri desideri.
In sintesi, il principale fattore di pregiudizio per il benessere del minore è rappresentato non tanto dalla scelta di un genitore di intraprendere l’iter di adeguamento, quanto dall’elevato livello di ostilità esistente fra i genitori e dall’intensità delle tensioni che investono la sfera familiare (Iafrate 1996), rendendo difficile mantenere rapporti di cooperazione, orientati ad assolvere gli oneri accuditivi nei confronti del figlio (Scabini, 1995). In tal senso, il conflitto è distruttivo non solo ed esclusivamente a livello coniugale, ma anche e soprattutto a livello genitoriale, dal momento che ostacola il processo di riorganizzazione familiare e di transizione da un assetto relazionale all’altro. Allo scopo di tutelare il minore, è allora quanto mai opportuno tentare di «ridefinire» i rapporti genitoriali, tracciando una netta linea di demarcazione tra ruoli parentali e ruoli coniugali. E’ altresì auspicabile che i coniugi riescano a preservare un contesto relazionale stabile, assicurando la continuità del legame genitoriale e la conservazione delle rispettive responsabilità nei confronti del minore (Cigoli, Gulotta, Santi, 1997; Cigoli, Gallimberti, Mombelli, 1988; Scabini, 1995). Piuttosto che rimanere arroccati sulle proprie rispettive posizioni, è opportuno che padre e madre lascino aperto lo spiraglio alla collaborazione. Analogamente a quanto accade nelle famiglie «tradizionali», la disponibilità ad accantonare i rancori personali per il benessere del minore costituisce un primo importante segnale del fatto che hanno avviato una negoziazione capace di appianare le divergenze in forma accettabile. Il che rappresenta la condizione basilare affinché il figlio percepisca che gli eventi che hanno perturbato il suo contesto relazionale sono giunti ad una conclusione, vedendo schiudersi la possibilità di ricominciare a dedicarsi ai suoi obiettivi di crescita, senza preoccuparsi della qualità della relazione che intercorre tra i genitori e senza destreggiarsi nel mantenere un rapporto stabile con tutti gli adulti affettivamente significativi.
La gestione del rapporto con i minori
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La rivelazione ai figli
A differenza di quanto comunemente ritenuto, l’allontanamento del genitore transessuale non è considerato positivo o funzionale alla tutela del benessere del minore. Laddove il figlio sperimenti il distacco del genitore ed un improvviso disinteresse per la sua vita (eliminazione degli incontri, delle visite settimanali o dei contatti telefonici), sviluppa un forte senso di abbandono, accanto alla pervasiva sensazione di non essere amato. In tal senso, esiste accordo comune sul fatto che si tratti di una soluzione infruttuosa, oltre che inutilmente dolorosa, sia per il genitore transessuale che per il minore, il quale viene privato dell’affetto di una delle principali figure di riferimento e della piena partecipazione dell’adulto al suo sviluppo, alla sua crescita e al suo accudimento.
E’ altresì auspicabile, che la scelta di intraprendere l’iter di adeguamento venga comunicata quanto prima al figlio (Green, 1978). Rispetto a questo delicato onere, la maggior parte dei genitori transessuali preferisce svelare la propria condizione nell’interazione faccia a faccia. A questa regola aurea derogano quanti riscontrano un’estrema difficoltà nel mantenere contatti continuativi con il minore, tanto da essere vincolati ad una rivelazione scritta. Eccezioni a parte, è auspicabile che la comunicazione venga effettuata con il sostegno dell’altro genitore o di uno degli adulti della cerchia familiare, in modo da offrire un costante supporto emotivo che accompagni il minore nel suo percorso di comprensione delle problematiche identitarie di cui viene messo a conoscenza. Quando possibile, è preferibile che i genitori concordino il contenuto della rivelazione e adottino un linguaggio accessibile al minore. Laddove riescano ad allestire uno spazio aperto al dialogo e al confronto – fugando la presenza di eventuali dubbi e perplessità – hanno infatti maggiori probabilità che il figlio riesca a cogliere il senso di quanto sta accadendo. In molti casi, si tratta di un presupposto imprescindibile al fine di conservare un rapporto fondato sulla fiducia e la continuità di legame, evitando l’insorgere di timori abbandonici, sentimenti di colpa o reazioni di ostilità.
Per quanto concerne i bambini più piccoli, aiuta ricordare come essi crescano alimentando il proprio immaginario attraverso storie fantastiche e cartoni animati i cui protagonisti vanno incontro a continue trasformazioni. Nella fiaba «La Bella e la Bestia», il personaggio maschile è ad esempio prigioniero di un incantesimo che ne ha occultato l’umanità. Nel «Principe Ranocchio», il principe viene stregato e trasformato in rana. Lo stesso dicasi del «Brutto anatroccolo», che assume le sembianze di uno splendido cigno solo dopo aver affrontato tutta una serie di traversie che lo conducono lontano dagli affetti. Nei cartoni animati le figure hanno forme variegate e cangianti, gli animali possono parlare, i fiori hanno la capacità di cantare, Superman riesce addirittura a volare. Altre metafore possono essere prese a prestito dal mondo della natura, come nel caso della farfalla, che acquista tutta la sua bellezza solo al termine di un lungo processo di metamorfosi, passando attraverso lo stadio di crisalide. Proprio perché appartenente allo scenario di rappresentazioni simboliche di cui si nutre il bambino, il concetto di trasformazione rimane familiare e facile da padroneggiare, sia dal punto di vista cognitivo che dal punto di vista emotivo.
Aldilà degli aspetti contenutistici della rivelazione, non va comunque dimenticato che l’impatto della dichiarazione è largamente dipendente dal modo in cui viene fatta e dall’atteggiamento assunto dai membri del contesto in cui il minore è inserito. Nel caso in cui gli adulti di riferimento si mostrino amareggiati e ostili alla transizione, oppure reticenti all’idea di offrire chiare delucidazioni su quanto sta accadendo, la percezione del minore è quella di essere tenuto all’oscuro di un’azione spregevole o di una misteriosa verità. Contestualmente, può essere scosso da sentimenti contrastanti, fino ad esternare chiare reazioni di ansia, depressione e turbamento. Quando invece gli viene chiesto di colludere con il silenzio dei familiari rispetto alla transizione – quasi come se si trattasse di un segreto da custodire e da difendere dalle insinuazioni altrui – può iniziare ad esibire manifestazioni di chiusura, di isolamento e di ritiro in se stesso. Nella maggior parte dei casi, diventa comunque attento a tutti i segnali ed il tentativo di minimizzare i termini della questione non lo aiutano, né lo sottraggono al coinvolgimento o al senso di responsabilità da cui si sente investito suo malgrado.
Vale quindi la pena ribadire che nella misura in cui il tessuto relazionale in cui il minore è inserito assume un atteggiamento tollerante ed accogliente, orientato a gestire la situazione confrontandosi con competenza comunicativa rispetto agli aspetti emozionali, conflittuali o problematici che il percorso di transizione comporta, può affrontare la situazione in termini positivi, ovvero come occasione che può contribuire ad accrescere le sue risorse relazionali e la sua capacità di confrontarsi con le criticità. Di fronte alla scelta di accettare o di rifiutare il genitore transessuale, la maggioranza dei figli preferisce rapportarsi alle problematiche disforiche, piuttosto che incorrere nel rischio di perdere l’amore del padre o della madre. Se il rapporto con il genitore è appagante e soddisfacente prima della transizione, rimane tale anche una volta ultimato l’iter di riconversione. L’importante è mantenere aperta la disponibilità a dialogare, a confrontarsi con le perplessità e le preoccupazioni espresse dal minore, a muoversi con cautela rispettando i suoi tempi e i suoi confini.
A differenza di quanto accade con i bambini in tenera età, con gli adolescenti la situazione assume toni e sfumature più complesse. I ragazzi dello stesso sesso del genitore transessuale possono giungere a coltivare l’idea che le problematiche disforiche abbiano una base genetica, e che come tali possano essere ereditate dai figli. Alcuni di loro nutrono vergogna ed imbarazzo nei confronti dei compagni, così come il timore di perdere le amicizie, di essere esclusi dalla cerchia dei pari, di divenire oggetto di derisione e di stigmatizzazione nel contesto scolastico. Questo, in quanto nella fase adolescenziale i coetanei assumono un ruolo di primo piano nel processo di socializzazione e nella promozione del senso di sicurezza e di autostima personale (Rosenberg, 1967). L’interazione con i pari costituisce una delle principali opportunità per lo sviluppo della competenza comunicativa e sociale, dell’autonomia e della capacità di intrecciare legami con altri individui, al fine di definire più chiaramente il proprio assetto identitario. Considerata l’importanza assunta dal gruppo, paventando l’idea di essere emarginato dai compagni l’adolescente può reagire alla rivelazione sviluppando manifestazioni depressive, oppure esibendo un atteggiamento di distacco, ribellione e scontrosità. In alcuni frangenti, può giungere a provare un senso di rabbia talmente profondo da desiderare la morte del genitore transessuale. In altri, può invece riuscire a superare le sue iniziali ritrosie, fino a comprendere il senso della transizione e a riconoscere quanto questa possa essere fonte di dolore e sofferenza per l’adulto.
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Transessualismo e problematiche identitarie dei figli
Un ulteriore pregiudizio da sfatare riguarda l’idea che il genitore transessuale, in ragione delle sue problematiche disforiche ed identitarie, possa ingenerare nel figlio problemi di identificazione con il genere sessuale d’appartenenza. Questo, in virtù della convinzione che uomo e donna siano contraddistinti da opposti caratteri psicologici: convinzione largamente sedimentata nei repertori discorsivi, negli stereotipi e nelle attribuzioni di ruolo socialmente condivise. Ciò nonostante, gli studi sul tema non confermano quanto viene ritenuto certo ed assodato. Rimanendo nell’ambito dei contributi di ricerca a tutt’oggi disponibili, l’unico aspetto su cui esiste un sostanziale grado di accordo riguarda le differenze relative alla maggiore abilità spaziale e matematica nei maschi e la più spiccata abilità verbale nelle femmine, attribuite alla diversa lateralizzazione emisferica nei due sessi. I maschi sembrano inoltre esibire una maggiore disposizione al comportamento aggressivo, favorito dall’azione dei meccanismi neuro-endocrini. Altre differenze (quali la suggestionabilità, la timidezza, la sicurezza in se stessi, la suscettibilità all’ansia e alla depressione, la dipendenza e l’emotività) sembrano, invece, essere l’effetto di comportamenti socialmente appresi piuttosto che di inclinazioni geneticamente preordinate (Mischel,1981). Per il resto, sia le ricerche effettuate in ambito biologico, sia quelle compiute in ambito psico-sociale (Bem, 1975; 1981) attestano come gli attributi sessualmente tipizzati in senso maschile e femminile siano due dimensioni in gran parte indipendenti, ortogonali e in varia misura coesistenti in una stessa persona[21]. Prescindendo da tali risultati, la maggioranza degli psicologi sono comunque giunti alla conclusione che la mascolinità e la femminilità non sono da concepire come due poli opposti di una stessa dimensione (Salvini, 1993).
Su tutt’altro fronte, va rilevato come il fatto di aderire a modelli maschili o femminili non sia una scelta discrezionale ed autonoma, in quanto le aspettative degli altri, condivise per esigenze di adattamento sociale, finiscono per orientare selettivamente l’autopercezione e l’autoattribuzione del bambino. Ciò significa che un genitore transessuale può regolare il passaggio dal ruolo sessuale assegnato all’autopercezione maschile e femminile da parte del figlio, alla stregua di qualsiasi altro genitore non transessuale. Tra gli innumerevoli processi psicologici attraverso i quali l’adulto può orientare per via culturale lo sviluppo infantile in direzione maschile o femminile vanno citati l’uso di certi giocattoli, il rispecchiamento offerto dai protagonisti delle fiabe o dei programmi televisivi, la scelta di certi abiti o di certi colori, l’utilizzo di determinate espressioni linguistiche, l’adozione di specifici schemi interattivi. In definitiva, si tratta di un complesso sistema di ruoli e di rituali attraverso i quali i genitori possono cooperare con l’informazione genetica, legittimando i comportamenti dei figli che più corrispondono agli stereotipi dei due sessi. Dai rituali e dai ruoli, i bambini e le bambine mutuano i modelli espressivi e comportamentali necessari a collocarsi entro codici emotivi differenziati. Come dimostrato dagli antropologi e dagli psicologi dell’età evolutiva, la ritualità compare infatti precocemente nel comportamento infantile (Erikson, 1966; Bruner, 1986; Bonino, 1987) e gioca un ruolo centrale nell’istituire un rapporto speculare tra la forma esteriore della relazione sessualmente tipizzata – governata dalle regole implicite del rito sociale – e la percezione che i bambini hanno di se stessi.
All’azione genitoriale è ovviamente da affiancare la pressione educativa esercitata dagli altri adulti di riferimento, come ad esempio i fratelli maggiori, i parenti, gli insegnanti e il gruppo dei pari. L’obiettivo finale è sempre quello di intrecciare una fitta rete di significati socialmente condivisi, suscettibili di orientare il bambino verso l’acquisizione dei caratteri sessuali assegnati. Eppure, la pressione psicologica dei genitori, gli schemi di relazione offerti dagli altri e i modelli socialmente preordinati non sono sufficienti a garantire la piena identificazione del minore con il sesso assegnato. Il presupposto imprescindibile è che il bambino collabori attivamente, impegnandosi in un processo cognitivo definito come «autocaratterizzazione sessuale», ovvero un processo attraverso il quale trattiene solo le informazioni coerenti con la propria identità maschile o femminile, confermata dalla realtà somatica del proprio sesso. In ultima analisi, una volta classificatosi come maschio o femmina, si impegna nel conservare un’immagine coerente con la propria identità sessuale, condividendo atteggiamenti e valori, così come selezionando le informazioni compatibili con la propria identità e le relative forme di autoconsapevolezza (Mischel, 1981).
Non da ultimo, va sottolineato come gli indicatori di comportamento desunti dai prototipi e dagli stereotipi della femminilità o della mascolinità possono essere interiorizzati dal bambino, ma solo a patto di essere concretamente sperimentati nell’interazione faccia a faccia. Sono quindi i ruoli sessualmente dimorfici – attribuiti o agiti, immaginati o osservati – a contribuire al progressivo modellamento biografico dell’identità personale e di genere del minore (Salvini, 1993). Ciò significa che i timori relativi al fatto che un genitore transessuale possa aprioristicamente compromettere lo sviluppo psicologico del figlio sono del tutto ingiustificati e destituiti di fondamento scientifico. Ne danno riprova i risultati degli studi effettuati su coppie con figli (Green, 1978), in cui la presenza di un genitore transessuale non ha alimentato problemi identitari o di orientamento sessuale nei minori, per lo meno non in percentuali superiori a quelle dei figli cresciuti nell’ambito di nuclei familiari tradizionali.
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La gestione dei rapporti extrafamiliari
Un ultimo snodo problematico è rappresentato dalle modalità di gestione dei rapporti tra la famiglia del minore e gli insegnanti del contesto scolastico in cui è inserito. Spesso e volentieri, i docenti sono impreparati ad affrontare con sufficiente adeguatezza la configurazione esistenziale di un bambino o di un adolescente che viene chiamato a confrontarsi con le problematiche disforiche del genitore. In tal senso, è quanto mai auspicabile che i genitori prendano contatto con gli insegnanti, in modo da offrire delucidazioni, rassicurazioni e chiarimenti sulle dinamiche familiari in corso, anche e soprattutto alla luce delle problematiche identitarie del genitore transessuale. Questa operazione risulta essere indispensabile, specialmente nel caso in cui il minore manifesti chiari indici di disagio intrapersonale, difficoltà di apprendimento o problemi di integrazione con i coetanei.
E’ altresì prioritario che i docenti vengano opportunamente informati circa i processi che presiedono alla costruzione dell’identità personale e di genere, affinché possano operare in qualità di mediatori competenti sia in rapporto ai compagni del bambino o dell’adolescente, sia in rapporto alle loro famiglie d’origine. In assenza di una solida cultura delle differenze, è infatti probabile che l’alunno i cui genitori si discostino dai modelli e dagli standard socialmente approvati incappi in fenomeni di discriminazione e bullismo. Accanto a questo aspetto, non va sottovalutato il fatto che i genitori dei coetanei siano spesso scarsamente orientati a rivedere i propri pregiudizi e la propria diffidenza nei confronti delle persone transessuali. Non di rado, la constatazione che un padre o una madre sta affrontando l’iter di transizione produce risposte di allarme negli altri genitori, riluttanti all’idea che i propri figli intrattengano contatti con il minore, sia nel contesto scolastico che nei luoghi ricreativi esterni alla scuola. In quest’ottica, l’atteggiamento di emarginazione o di rifiuto assunto dai pari va letto non solo ed esclusivamente nei termini di un’autonoma elaborazione di pensiero, ma anche e soprattutto quale riflesso della posizione di chiusura assunta dai loro familiari.
A scanso degli ostacoli e delle difficoltà relazionali che un figlio può incontrare lungo il proprio percorso formativo, la scuola resta comunque uno degli spazi privilegiati all’interno dei quali attivare sinergie ed interazioni, catalizzando l’attenzione sulle risorse e le competenze esistenti, piuttosto che sulle lacune e le carenze rilevabili (De Leo, 2002). Ne discende che l’intervento degli apparati istituzionali deputati ad accompagnare il minore nel consolidare la sua identità personale e di genere andrebbe declinato a partire dalla promozione delle strategie di coping presenti a livello evolutivo, dal potenziamento delle abilità interattive e di contesto (note come social skills), dal consolidamento della possibilità di sperimentarsi competente ed efficace all’interno di situazioni familiari problematiche. Una logica di questo tipo dovrebbe essere alla base della progettazione di servizi caratterizzati da funzioni di assistenza e sostegno, così come della formulazione di iniziative tese ad attuare interventi formativi nelle scuole, a creare luoghi di incontro e di socializzazione (tra pari, ma anche tra adulti e minori), ed in ultima analisi ad innescare un processo di rinnovamento socio-culturale passibile di imprimere un cambiamento qualitativo alle condizioni di vita di bambini e ragazzi inseriti all’interno di scenari relazionali critici. In tale direzione si pronuncia l’articolo 29 della Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia, che enuncia espressamente quanto segue:
Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità […]; c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali […]; d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona.
Sempre a proposito di «buone pratiche» attuabili dal sistema socio-assistenziale, andrebbero adeguatamente ripensate iniziative quali lo spazio giovani, lo sportello di consulenza educativa per genitori, il servizio di mediazione familiare, i percorsi di sostegno alla genitorialità, i progetti di promozione del benessere psico-sociale riservati ad alunni, genitori e insegnanti. Contestualmente, i Consultori Familiari e i Distretti per l’Età Evolutiva, in qualità di strutture territoriali operanti sia sugli adulti che sui soggetti in via di sviluppo, potrebbero rappresentare gli interlocutori elettivi e privilegiati (Simonelli, Vizzari, 1994). Su tutt’altro fronte, andrebbe valorizzato l’impegno delle strutture non direttamente collegate al sistema educativo e scolastico, ma pur sempre interessate alla tutela dei minori. Un esempio è costituito dal S.A.I.F.I.P. (Servizio per l’Adeguamento tra l’Identità Fisica e l’Identità Psichica) dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo di Roma, che ha da tempo istituito un centro clinico e di ricerca per l’età evolutiva, rivolto sia ai bambini che presentano problematiche identitarie, sia ai figli degli utenti adulti che si apprestano ad affrontare il percorso di transizione.
Ciò fermo restando, i dati rinvenibili in letteratura (Zani, Bonini, 1993; Simonelli, Fabrizi, Rossi, Vizzari, 1996) denunciano le traversie incontrate dalle proposte formative attivate presso gli istituti scolastici di vario grado e livello, rivelatesi il più delle volte deludenti e fallimentari. Non va poi trascurato il fatto che il binomio transessualismo-genitorialità giaccia al di fuori dell’ambito di interesse e di pertinenza degli enti sociali diffusi sul territorio. In maniera non dissimile, anche lo spazio occupato all’interno delle rivendicazioni delle associazioni GLBT appare decisamente limitato e circoscritto, se non addirittura asfittico. La principale riprova è data dal contenuto dei protocolli d’intervento conformi agli standard sui percorsi di adeguamento dell’Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association, a cui aderiscono i maggiori centri italiani presso i quali è possibile accedere al percorso di transizione e di riconversione chirurgica[22]. Al loro interno, non è rinvenibile il benché minimo accenno alla questione della genitorialità e della salvaguardia del rapporto genitori-figli, se non in modo del tutto marginale ed indiretto. Tutt’al più, ci si limita ad auspicare che i servizi possano fruire del lavoro interdisciplinare di operatori contraddistinti da una specifica e qualificata competenza, inclini ad attenersi alle procedure concordate con i servizi socio-sanitari ed istituzionali, le agenzie sociali (sindacati, movimenti ed associazioni) e le altre strutture presenti sul territorio (tribunali e pubblica amministrazione).
Conclusioni
La sempre maggiore diffusione di casi di transessualismo sgretola le certezze postulate dal modernismo, la fiducia nell’esistenza di verità ultime ed oggettive, la stabilità dei valori e dei significati che permeano il senso comune. Eppure, a dispetto del suo potere sovversivo rispetto all’ideologia modernista e ad un sistema sociale rigidamente binario, i dati attualmente disponibili non suffragano i timori circa il fatto che le problematiche identitarie di un genitore influiscano in termini negativi sullo sviluppo del figlio. Per contro, sono ampiamente documentabili gli effetti perturbanti ingenerati dell’interruzione dei contatti con il minore, a fronte della sentenza di rettificazione di sesso e del conseguente scioglimento del vincolo matrimoniale. Onde evitare infruttuosi conflitti e dolorosi distacchi, è allora quanto mai auspicabile potenziare la ricerca scientifica, sensibilizzare le istituzioni e le agenzie di socializzazione operanti sul territorio, diffondere buone prassi e promuovere una cultura fondata sul rispetto delle differenze. Tali riflessioni nascono sulla scorta della consapevolezza che ogni iniziativa che si proponga di affrontare una questione complessa come quella del transessualismo in maniera parcellizzata e circoscritta, sia inevitabilmente destinata al fallimento. Affinché le varie iniziative possano rivelarsi efficaci, è allora indispensabile creare un sistematico raccordo tra le istituzioni interessate alla ricerca e alla tutela giuridica degli individui, gli enti e le strutture socio-assistenziali, nonché i professionisti impegnati nel sociale. Il tutto, al fine di avviare un processo di cambiamento che consenta di consolidare una cultura dell’intervento commisurata alle problematiche delle persone transessuali e dei loro familiari. Sorretti da questo auspicio, concludiamo il nostro contributo riportando lo stralcio di un’intervista apparsa tempo fa in internet[23]:
Bruno alza la faccia dal suo piatto di fragole e panna: «Non è cambiato molto rispetto a prima». «Si è liberato davvero solo l’anno scorso», aggiunge Silvia. «Ne ha parlato al suo miglior amico e a un’altra sua amichetta». «Hanno capito», conferma lui. «Ma sei felice?». Non esita: «Sì». «E perché hai voluto che papà non completasse la transizione?». Bruno parla in modo articolato, sembra un adulto, sbatte le palpebre, come il papi: «È una paura che nasce per le cose che non si conoscono». «Bruno», precisa Mara, «ha paura che noi ci separiamo dal punto di vista legale quando io cambio il nome sui documenti, teme che dopo l’operazione il matrimonio venga annullato». E allora l’operazione è rimandata. «Il peggio è passato, ma io resto preoccupata per Bruno, è ancora un adolescente. Così, se è il caso, l’intervento lo farò fra qualche anno». Silvia era a conoscenza dei travestimenti di Mario, eppure lo amava, e ora ama Mara: il contenuto non cambia, il genere non ha modificato la sostanza. «Volevo una famiglia», dice Silvia, «Mara me l’ha data, è sempre stata sensibile, forte, affidabile. Qui il maschio era lei, ed è ancora lei». Mara conferma: «I ruoli non sono cambiati, il problema vero stava nella preoccupazione per i figli, per Bruno in particolare. Per Riccardo è diverso, lui ci ha viste così sin dall’inizio». Sembra una delle storie che affollano i film di Pedro Almodóvar, e invece siamo a Treviso, nel profondo Nordest, fondato sulla famiglia e sull’economia familiare. E a ben guardare, quella di Mara e Silvia è una famiglia supertradizionale. A salvare Mara è stato l’affetto del suo mondo, un affetto normale, non esibito.
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Note
[1] Bimbi, Castellano, 1990; Zanatta, 1997; Morgan, 1999; Silva, Smart, 1999; Bimbi, 2000; Weeks, Heapy, Donovan, 2001; Saraceno, Naldini, 2001; Bertone, 2005.
[2] Viste le multiformi versioni circolate all’interno delle principali associazioni GLBT, l’ufficio legale di Rifondazione Comunista ha preferito riscrivere da principio l’intero testo di legge, in modo da approdare ad una versione univoca e definitiva.
[3] L’art. 4 della legge 164/82 recita quanto segue: «La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso non ha effetto retroattivo. Essa provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Si applicano le disposizioni del codice civile e della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni». Ciò fermo restando, va comunque sottolineato come nel nostro ordinamento il matrimonio sia possibile solo tra persone di sesso diverso. In tal senso, la Corte Costituzionale ha affermato che – ammettendo la sentenza di rettificazione del nome e quindi la sentenza di divorzio – si arriverebbe ad un assurdo, dato che nel corrispondente lasso di tempo avrebbe luogo un matrimonio tra persone dello stesso sesso, non ancora ammesso a livello legislativo. Contro questa interpretazione, che è quella prevalente in ambito dottrinale e giurisprudenziale, va rilevato come – per la legge sul divorzio – il passato in giudicato della sentenza di rettificazione costituisce solo una tra le possibili ragioni di rottura del legame coniugale. In virtù di questo, i coniugi potrebbero liberamente optare per la conservazione del vincolo matrimoniale, o viceversa per la sua dissoluzione.
[4] Una delle rare sentenze attente all’esigenza di assicurare sia al genitore transessuale, che al figlio un sereno confronto con il processo di cambiamento in atto – al fine di salvaguardare il loro rapporto – è rappresentata da una pronuncia del tribunale di Fermo del 1997, in cui è stata accolta la richiesta del padre di sospendere i contatti con la figlia, ma solo fino al momento in cui la bambina non avesse raggiunto la «maturità psicologica» necessaria a consentirle di misurarsi con la modificazione dei caratteri sessuali del padre.
[5] In tale direzione, una sentenza del tribunale d’appello di Perugia risalente all’anno 1998 ha ordinato la cancellazione della parte relativa alla pregressa storia di transessualismo del marito dalla motivazione addotta dal tribunale minorile, che dichiarava l’idoneità della coppia all’adozione internazionale. Il riferimento al cambiamento dell’identità di genere da parte dell’uomo è stato considerato pregiudizievole per i coniugi, in quanto avrebbe comportato l’inattuabilità del provvedimento nei Paesi del terzo mondo, trattandosi di una richiesta di adozione internazionale.
[6] Con la nuova normativa in tema di adozione e affidamento, alla coppia coniugata vengono riconosciuti gli anni di convivenza «stabile e continuativa» che abbiano preceduto il matrimonio (nella misura dei tre anni stabiliti dalla legge 184/83 quali requisiti di «anzianità» minimi per vedersi riconosciuta l’idoneità ad adottare). Le altre principali modifiche introdotte dalla legge 149/01 riguardano i seguenti aspetti: a) l’innalzamento da 40 a 45 anni dell’età che deve intercorrere fra i genitori che aspirano all’adozione ed il minore da adottare; b) la trasformazione della procedura di adottabilità, che avviene con sentenza e con maggiore rispetto del contraddittorio fra le parti; c) la creazione di una banca dati elettronica nazionale presso il Ministero della Giustizia per agevolare l’abbinamento fra i minorenni abbandonati e le coppie aspiranti; d) la chiusura degli istituti di ricovero entro il 31/12/2006 ed il conseguente affidamento dei minori a famiglie disponibili o a case-famiglia.
[7] La norma indica come importante parametro di riferimento il diritto del minore ad avere una famiglia fondata sul matrimonio (comma 1 – art. 6 della legge 149/2001), per quanto non sia possibile affermare apriori che la coniugalità costituisca un indicatore certo di stabilità o di migliore capacità dei coniugi di ricoprire il ruolo genitoriale. In tal senso, l’orientamento normativo attesta come e quanto l’istituzione matrimoniale costituisca ancora uno dei principali principi fondanti la famiglia.
[8] Il concetto di «rischio» fa riferimento alle peculiarità della condizione minorile, agli specifici bisogni di protezione e tutela, all’eventualità che i fattori di ordine individuale, relazionale e contestuale possano interferire con quello che viene definito come il «normale iter di crescita», ritardando o ostacolando il processo di sviluppo.
[9] La Convenzione di New York è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991 n. 176.
[10] In base a quanto previsto dall’art. 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca lo scioglimento del matrimonio e contempla l’applicazione delle disposizioni del codice civile e della legge 1° dicembre 1970 e successive modificazioni.
[11] Il quarto comma dell’art. 155 c.c. recita testualmente quanto segue: «Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge».
[12] Il primo comma dell’art. 155 recita quanto segue: «Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».
[13] Anticipando la linea direttiva fatta successivamente propria della legge di riforma del diritto di famiglia, l’introduzione della legge sul divorzio ha colmato la lacuna legislativa esistente, «privilegiando in modo assoluto l’interesse dei figli» (Lenti, 1973).
[14] Per una rassegna a proposito dei criteri per l’affidamento si faccia riferimento a A. Dell’Antonio, D. Vincenti Amato, (a cura di), L’affidamento dei minori nelle separazioni giudiziali, Milano: Giuffrè, 1992. Contestualmente, vengono indicate le percentuali di ricorrenza dei parametri adottati nei Tribunali di Roma, Milano e Genova fino al 1986. Nonostante si tratti di un’indagine ormai datata, i dati raccolti offrono utili spunti di riflessione rispetto alle prassi vigenti in ambito giudiziario.
[15] Per un’accurata disamina dei criteri che orientano l’affidamento si veda il contributo di R. Scarpaglione, “Criteri giudiziari nell’affidamento della prole”, in V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi, Separazione, divorzio e affidamento dei figli, Milano: Giuffrè, 1997.
[16] ISTAT (2000): La struttura delle famiglie e dei nuclei familiari, www.istat.it/Aproserv/noved/strutfam/comsta.html
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[17] Morgan sembra operare il passaggio verso una definizione performativa del concetto di famiglia, introducendo il costrutto di «pratiche familiari». I fautori di tale costruzione sono le istituzioni, così come le persone direttamente implicate nel definire in termini situazionali che cosa significhi fare famiglia.
[18] L’era modernista è caratterizzata dalla fiducia nella possibilità di approdare ad un sapere sistematico ed oggettivo, fondato sui presupposti empirico-fattuali delle scienze naturali (a-teoreticismo, induttivismo, determinismo, esplicazionismo, riduzionismo, capacità di previsione rispetto agli eventi). A tale paradigma fanno riferimento svariati approcci psicologici, tra cui quello della psicoanalisi, del comportamentismo, del cognitivismo e della psicologia dei tratti.
[19] L’aggettivo «critico» va inteso nella sua accezione etimologica di krisis, ovvero di un momento di cesura che segna la separazione tra un prima ed un poi. Come tale, può apportare sia cambiamenti negativi e destabilizzanti, sia risorse e innovazioni positive.
[20] Il termine indica il processo attraverso il quale il genitore non transessuale rafforza il proprio legame con il figlio, portandolo ad un progressivo allontanamento dal genitore transessuale. Tale processo si sviluppa attraverso il ricorso a strategie di «indottrinamento» che hanno lo scopo di separare il figlio dal coniuge, trasformandolo in un proprio alleato. Le tattiche possono essere estremamente variegate: drammatizzare gli eventi, esprimere un forte biasimo nei confronti del genitore transessuale, presentarlo sotto una luce negativa, allineare il minore con il proprio pensiero e giudizio, sottolineare il fatto di essere l’unico genitore capace di prendersi cura di lui, prospettare l’affetto dell’altro genitore come interessato e inautentico. In altre parole, si tratta di atteggiamenti e comportamenti che dimostrano quanto il genitore transessuale sia ritenuto pericoloso per il benessere del figlio (Buzzi, 1997).
[21] Gli studi di Sandra Bem hanno consentito di individuare quattro diverse tipologie di soggetti: soggetti sostanzialmente orientati in senso maschile o femminile, soggetti androgini in cui sussiste un’evidente coesistenza di «tratti» maschili e femminili, soggetti sessualmente indifferenziati in cui gli aspetti tipizzati del maschile e del femminile presentano un’espressione scarsamente significativa.
[22] Tra i centri che fanno riferimento agli standard sui percorsi di adeguamento dell’Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association ricordiamo il Consultorio M.I.T. (Movimento Identità Transessuale) di Bologna, l’Unità di Psicologia Clinica e Psicoanalisi Applicata dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, il S.A.I.F.I.P. (Servizio per l’Adeguamento tra l’Identità Fisica e l’Identità Psichica) dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo di Roma, il C.I.D.I. Ge. M. (Centro Interdipartimentale Disturbi dell’Identità di Genere) di Torino, il C.E.D.I.G. (Centro per la Diagnosi e la Terapia dei Disturbi dell’Identità di Genere) di Trieste, l’Ospedale Niguarda di Milano.
[23] https://www.chiamamimara.net